MY MESSAGE.
Navalny, il leader dell’opposizione russa, è morto. E in questi giorni, uno dei modi migliori per ricordare il suo contributo contro la follia sovranista e autoritaria di Putin, potrebbe essere la visione del documentario premio Oscar (2023) Navalny di Daniel Roher.
Aleksej Naval’nyj è stato un attivista e politico russo, fondatore della Anti-Corruption Foundation e leader di Russia of the future (2018-2021). Il documentario a lui intitolato ripercorre le tappe fondamentali della sua opera politica di contestazione del regime. «It’s a movie on the case of my death» dice Navalny nel corso dell’intervista. Si alza dalla sedia e si allontana dalla camera. «I realised he is filming it all for the movie he’s going to release if I get whacked».
È un uomo politico, robusto, determinato, dedicato. Ma è pur sempre un uomo.
Queste parole sono state registrate nei mesi successivi a un evento particolarmente rilevante: il 20 agosto 2020, sul volo S7 Airlines da Tomsk a Mosca, Navalny inizia a manifestare sintomi di malessere fino a perdere coscienza. Viene effettuato un atterraggio di emergenza ad Omsk. Qui viene trasportato al reparto di rianimazione tossica, cade in coma.
Nelle scene del documentario vediamo la preoccupazione di Julija Naval’naja, oggi descritta come leader dell’opposizione russa, moglie di Alexey Navalny. I famigliari, il partito, la cancelliera tedesca Angela Merkel e il presidente Macron chiedono che il paziente venga trasportato a Berlino. I medici rifiutano il permesso di trasporto.
Si decide per un appello alla Corte Europea dei diritti dell’uomo e una lettera-appello a Vladimir Putin con la pretesa di autorizzare il trasferimento. La sera del 21 agosto la richiesta viene soddisfatta e Navalny sarà trasportato all’ospedale universitario della Charitè, a Berlino. Qui viene confermata l’ipotesi di avvelenamento e individuata la sostanza responsabile: il Novichock.
«What the fuck? This is so stupid!»: è la prima reazione di Navalny. Il Novichock equivale a una firma di Putin sulla scena del crimine. A questo punto un altro attore importante entra in scena: Christo Grozev, un giornalista investigativo bulgaro. Lavora per Bellingcat, è specializzato in sicurezza e conosciuto per le sue investigazioni tramite open-source, i social media e l’utilizzo di dati comprati sul dark-web. Non si fida delle fonti umane.
E fino ad allora, aveva criticato pubblicamente Navalny su Twitter, ritenendolo parte di una falsa opposizione al regime di Putin. Decide, però, di occuparsi del suo tentato omicidio e la collaborazione tra i due è magica. Insieme, riescono a sventare i mandanti del tentato omicidio: giocano sulla “stupidità” – così la descrive Navalny nel documentario – dei servizi segreti, si affidano alla “Moscow4” e, come sperato, ottengono una confessione completa.
Non hanno utilizzato armi o violenza, hanno chiamato con un numero sconosciuto uno dei sospetti, un banale scherzo telefonico.
Dopo aver scoperto che il Novichock è prodotto in un solo stabilimento in Russia, il Signal Institute, incrociano i dati di geolocalizzazione dei dipendenti con le tratte aeree percorse da Navalny. E così, individuano i potenziali omicidi. Poi basta qualche telefonata. Alexei si finge un supervisore, fa qualche domanda sul caso Navalny e l’interlocutore, Konstantin Kudryavtsev – un agente della FSB – rivela tutto. Sembra incredibile.
Il 14 dicembre viene pubblicata l’indagine, frutto della collaborazione tra il sito russo The Insider, Bellingcat, la CNN e la rivista tedesca Der Spiegel. A gennaio 2021, Navalny e la famiglia ritornano a Mosca dopo sei mesi di esilio in Germania. «Boy, bring in some vodka, we are going home» è la celebre frase pronunciata dalla moglie Julia. All’aeroporto Vnukovo li attende una folla di sostenitori di migliaia di persone ma l’aereo viene dirottato sul Sheremetyevo Airport e pochi minuti dopo l’atterraggio, al controllo passaporti, l’attivista viene arrestato.
L’accusa è quella di aver violato la libertà condizionale durante il soggiorno in Germania. Ne seguiranno altre – accuse infondate come quella di estremismo –, funzionali solo a reprimere il suo movimento di opposizione. Navalny non smetterà di essere prigioniero e morirà nel carcere di Yamalo-Nenets, in Siberia, il 16 febbraio 2024. «The only thing necessary for the triumph of evil is for the good people to do nothing. So, don’t do nothing» è la risposta alla domanda su quale sia il suo messaggio politico e sull’ipotesi della sua morte. Il documentario di Roher si conclude con questa riflessione.
E ci farebbe bene ripetere queste parole anche oggi, nel nostro Paese, per non rischiare di dimenticarci che prendere posizione è necessario: davanti alle 29.606 vittime palestinesi, stare in silenzio è una scelta politica ben precisa. E soprattutto, quelle parole e la vicenda Navalny dovrebbero ricordarci che metodi rudimentali come la repressione violenta della libertà di manifestazione sono antidemocratici e autoritari.
THE MAJOR TASK.
«How is president Navalny different from president Putin?» è la domanda di Daniel Roher, nella seconda parte del documentario. La missione principale di un Navalny-presidente sarebbe quella di prevenire il ristabilirsi di un regime autoritario, definito come preistorico. Questa è, in effetti, la linea da sempre sostenuta dal suo partito:
la decentralizzazione del potere, al fine di spostarsi verso un sistema parlamentare dominato dalla rule of law.
E poi, l’indipendenza del potere giudiziario e la riduzione dell’interferenza del governo nell’esercizio dei diritti fondamentali (la censura, il controllo sui media sono un leitmotiv della politica putiniana). E tutto questo sarebbe un risultato rivoluzionario se solo si potesse avverare. Ma non ci sarà mai un Navalny presidente. Perché Navalyn è stato ucciso. E la mano sporca di sangue è quella di Putin e del suo regime autocratico.
Ancora una volta, ha vinto la repressione. Ma ha davvero vinto la repressione? Il dubbio è lecito. Di Navalny colpisce il suo ottimismo, la sua speranza e la confidenza nella propria sopravvivenza e quella della sua linea politica. E forse, il carcere è stato il suo ultimo, più grande palcoscenico. Oppure, ha confidato troppo nella capacità dell’Occidente di schierarsi a suo favore, la capacità dell’Europa di fornirgli uno scudo protettivo contro le vessazioni del presidente russo. «As I became more famous, I was sure my life became safer … It would be problematic for them just to kill me» dice a Roher a seguito del suo avvelenamento.
PRIMITIVE.
Navalny si è sbagliato perché ha sottovalutato l’efficacia dei mezzi primitivi – e antidemocratici – utilizzati dai servizi segreti russi. L’avvelenamento, in primis. L’incarcerazione arbitraria, poi. E ha sottovalutato il regime autoritario e repressivo che domina il panorama russo, un fossile vivente. Navalny ha costruito il suo successo politico sulla sua spregiudicatezza. Il suo motto? «I am not afraid» – Eminem potrebbe chiederne i diritti.
E così con la sua stretta cerchia di collaboratori, tanto lavoro e pochi fondi, portava avanti la sua battaglia. Era ben consapevole di cosa implicasse forzare un regime autoritario: il carcere, prima di tutto, che considerava routine.
Un teatro dell’assurdo al posto della giustizia, con condanne stratosferiche e accuse totalmente infondate.
La forza di Navalny è stata proprio quella di presentare un modo nuovo di fare politica in Russia: con un laptop e una connessione internet ha rubato la scena al tradizionalismo, un sistema che ostacola lo sviluppo della Nazione; ha coltivato quello che è stato definito come «new sense of national consciousness».
FOR THE SAKE OF POLITICS, OR MAYBE NOT.
Tornare a Mosca è stata una scelta coraggiosa: un messaggio forte di non sottomissione al regime, un messaggio che gli è costato la vita. E viene da chiedersi, la passione politica la giustifica? Sarebbe stato screditante scegliere l’esilio?
Navalny prepara il suo ritorno a Mosca. Non si tratta solo di una spinta viscerale, di passione o di missione. La sua professione è quella di uomo politico e tornare a Mosca è stato il naturale adempimento di tale responsabilità, il dovere professionale di essere in prima linea. Eppure, sottovalutando l’avversario, Navalny ha perso la vita, accecato dalla sua stessa abilità di sopravvivere all’ennesimo attacco dei suoi oppositori. «They could lock you up for a quarter of a century! So let them».
Dal cubicolo dove è rinchiuso durante uno degli innumerevoli processi nel corso del 2022, disegna un cuore sul vetro. Guarda la moglie Julia negli occhi. E quando la camera la inquadra, la rima inferiore dei suoi occhi è stracolma. Ma nessuna lacrima le scorrerà sul volto. E allora alla grande domanda “quanto di una vita può essere sacrificato in nome della politica?”, qualcuno potrebbe persino rispondere “tutto, persino l’amore dei propri cari”. Bisogna solo sperare che questo enorme sacrificio umano abbia un risultato nei meandri della storia.