Aleksey Navalny sognava una Russia libera e democratica, e questo sogno è ciò che lascia dietro di sé: l’idea che un’altra Russia sia possibile.
Così Sviatlana Tsikhanouskaya, leader dell’opposizione bielorussa, ha recentemente celebrato dalla Lituania il defunto dissidente russo, paragonando l’azione del Cremlino verso Kyiv a quella nei riguardi di Minsk. Come mai la politica, ritenuta l’unica legittima rappresentante della Bielorussia, si trova in esilio? Facciamo un passo indietro.
Il 27 luglio 1990 ha segnato un momento cruciale nella storia della Bielorussia: il Paese proclamò la propria indipendenza dall’Unione Sovietica, un passo ufficialmente riconosciuto nel 1991. Pochi anni più tardi, nel 1994, la nazione ha sperimentato le sue prime elezioni democratiche, che hanno portato al potere l’allora poco conosciuto Aljaksandr Lukašenka (noto anche in Occidente come Lukashenko).
Nato nel 1954, Lukashenko fece il suo ingresso nella politica nel 1990, quando fu eletto deputato del Soviet bielorusso. Successivamente, fondò il partito Comunisti per la Democrazia, con l’obiettivo di guidare l’URSS verso una democrazia in accordo con i principi comunisti. Il potere che Lukashenko ha ottenuto al secondo turno nel 1994 non è stato da lui più lasciato: è ininterrottamente presidente della Bielorussia da quasi 30 anni (il mandato più lungo per un presidente europeo) e viene spesso definito «l’ultimo dittatore d’Europa».
Il presidente bielorusso ha consolidato il suo dominio attraverso una serie di referendum e l’emanazione di leggi mirate a concentrare il controllo dello Stato sempre di più nelle sue mani.
Un esempio lampante è rappresentato dal referendum costituzionale del 1996, che ha conferito al presidente un significativo aumento dei poteri a scapito del Parlamento. Tale modifica non ha solo accentuato il suo controllo sull’apparato statale, ma ha anche prolungato la durata del suo mandato.
Altrettanto significativo fu il referendum del 2004, che abolì il limite dei due mandati presidenziali e aprì la strada a ulteriori candidature di Lukashenko. Tali referendum, insieme alle elezioni presidenziali da lui vinte nel 2001, 2006, 2010, 2015 e 2020, sono stati costantemente al centro di polemiche a livello nazionale ed internazionale, con accuse di brogli e frodi elettorali.
Lukashenko ha istituito un regime caratterizzato da un controllo statale estremamente forte in Bielorussia, dove numerosi prigionieri politici sono detenuti e ogni forma di libera espressione è soggetta a una repressione severa. Quest’ultima si è intensificata notevolmente negli ultimi anni, specialmente dopo le elezioni del 2020 e le violente proteste che hanno successivamente scosso il Paese. In tali elezioni il leader bielorusso si è assicurato l’80% dei voti, un risultato che ha portato migliaia di persone a scendere in piazza per denunciare presunti brogli elettorali e chiedere nuove elezioni.
Le proteste videro come figura di spicco l’attivista Ales’ Viktaravič Bjaljacki, a capo del Viasna Human Rights Centre, la principale organizzazione per i diritti umani in Bielorussia, nonché vincitore del Premio Nobel per la Pace del 2022. Furono manifestazioni molto seguite in Occidente, grazie anche alla loro capacità mediatica: richiamarono le proteste allora in corso a Hong Kong, alcuni meme allora in voga e persino dei piccoli adesivi dei Pokémon (una forma di micro-protesta adatta a farsi strada negli interstizi di uno Stato poco liberale e, infatti, analoga a successive manifestazioni pacifiste in Russia).
È proprio in queste elezioni e nelle conseguenti proteste che Sviatlana Tsikhanouskaya assurge a volto di spicco dell’opposizione contro Lukashenko: inizialmente a sfidare il dittatore era stato suo marito Syarhey Tsikhanouski (noto anche come Sergei Tikhanovsky), la cui attività era riconducibile a quella di un blogger e youtuber che documenta il malcontento popolare. Non sorprende, se si pensa che anche in Russia diverse figure dell’opposizione (Navalny in primis) hanno lavorato tramite questi media e si concentrano sul dissenso derivante dalle condizioni di vita ed economiche, più che sui principi ideologici libertari.
È dall’annuncio della sua candidatura (rifiutata dalla Commissione Elettorale Centrale) e dal suo successivo arresto che sono scoppiate le sopracitate proteste, oltre due mesi prima delle elezioni. Mentre Tsikhanouski veniva detenuto (è stato infine condannato nel 2021 a 18 anni di carcere per aver cospirato contro il governo bielorusso), sua moglie Tsikhanouskaya prendeva le redini dell’opposizione, ottenendo dalla Commissione la possibilità di candidarsi contro Lukashenko.
Il suo scopo dichiarato era quello di scalzare il presidente, rendere la Bielorussia uno Stato democratico e poi dimettersi. Tsikhanouskaya ha affermato di aver vinto le elezioni del 2020 con il 60% dei voti; a seguito di minacce di violenza sessuale e allontanamento dei figli rivolte a varie oppositrici – alcune destinate a lei in persona – la candidata ha deciso di espatriare nella confinante Lituania.
La situazione che si è delineata non è quella di una mera oppositrice in fuga all’estero, né tantomeno di un governo ombra legalizzato dallo Stato bielorusso, quanto piuttosto quella di un vero e proprio governo in esilio. Dalla Lituania, infatti, Tsikhanouskaya si è auto-dichiarata «leader nazionale» pro tempore e ha creato un Consiglio di Coordinamento per il Trasferimento del Potere, presieduto da lei e altre figure (come l’ex-ministro Latushko o Latuška, attivisti e avvocati), azione che l’ha poi resa ricercata in Bielorussia.
A ottobre 2020, in misura complementare a questo Consiglio è nato quello che viene invece definito un governo ombra, la Gestione Nazionale Anti-Crisi guidata da Latushko e di cui invece Tiskhanouskaya non fa parte. Lo status di governante in esilio dell’oppositrice è comunque suffragato dal fatto che, se le elezioni del 2020 sono state riconosciute da leader come Putin, Xi, Kim e Assad, governi come quelli australiano, svizzero o israeliano le hanno criticate e molti altri le hanno del tutto disconosciute, dagli USA alla Serbia, passando per il Giappone, l’Ucraina e la stessa UE.
Non solo: nel 2021 il governo lituano che ospita Tsikhanouskaya l’ha ufficialmente riconosciuta come legittima leader e rappresentante bielorussa.
Analoghe forme di riconoscimento sono arrivate anche dall’Europarlamento o dalla NATO, ma non stupisce che proprio la Lituania si sia esposta a favore della dissidente: la nazione, come le altre Repubbliche Baltiche, riflette oggi un forte posizionamento anti-russo e il suo ingresso nella NATO rappresenterebbe, nella retorica di Putin, uno dei motivi dietro l’invasione russa dell’Ucraina. Del resto, la capitale Vilnius ospita l’ex-deputato Volkov, collaboratore del defunto Navalny, recentemente aggredito, secondo Meduza, con un martello e del gas lacrimogeno.
Anche la Lituania è stata del resto colpita dalla mirata crisi migratoria scatenata da Lukashenko nel 2021, che è arrivata alla Biennale di Venezia e ha portato alla costruzione di un muro sul confine, come anche in Polonia e Lettonia. Di questa controversa politica migratoria (ancor più discussa in confronto alla giusta accoglienza verso i profughi ucraini) avevamo parlato su Vulcano, così come dei piani militari che pongono al centro la zona bielorusso-lituano-polacca.
Se inizialmente Tsikhanouskaya negava espressamente di voler guidare un governo in esilio o di volersi ricandidare una volta tornata in patria, nel 2022 ha creato un Gabinetto Unito di Transizione, con a capo lei e Latushko, insieme a figure militari, diplomatiche, giornalistiche e anche un detective, Aliaksandr Azarau, ognuna con un preciso ruolo ministeriale.
Mentre Lukashenko forniva suolo e truppe per l’ “operazione speciale” russa in Ucraina (e ospitava i due iniziali tentativi di negoziato fra Kyiv e Mosca), Tsikhanouskaya ha preso le parti ucraine, pur rifiutando di considerare la Bielorussia solo in quanto vassalla di Putin. La politica considera anzi riscattabile la propria patria e a fine 2022 ha concepito il Piano Pieramoha (“Vittoria”), per sabotare Lukashenko e aspettare che la guerra lo indebolisca per ottenere un cambio di regime.
Cambiamento che però sembra ancora lontano: nel 2023 Tsikhanouskaya è stata condannata in contumacia a 15 anni di carcere e Latushko a 18 anni, per cospirazione e creazione di un gruppo estremista. Alle elezioni parlamentari bielorusse tenutesi esattamente un mese fa, poi, gli indipendenti sono stati più che dimezzati; la maggioranza quasi assoluta dei seggi è andata a Belaya Rus, partito filo-Lukashenko appena entrato in Parlamento, a cui vanno aggiunti i simpatizzanti Repubblicani e Comunisti. Rimane l’opposizione dei Liberaldemocratici, un’opposizione di facciata tanto quanto quella dell’omonimo partito russo (che rappresentò il dissenso di estrema destra a El’cin ma fu poi assorbito in termini di consenso da Putin).
Tsikhanouskaya ha invocato il boicottaggio e gli oppositori hanno bollato questa tornata come biazvybary, “senza elezioni” (del resto è dal 2015 che mancano osservatori internazionali ufficiali). Lukashenko ne esce comunque rafforzato, con le congratulazioni di Putin, e il nuovo orizzonte per Tsikhanouskaya (che lo neghi o meno) sembra essere già stato fissato: il suo avversario, infatti, ha annunciato la propria ricandidatura alle elezioni presidenziali del 2025.