Le grandi paure degli esseri umani sono tante: la morte, la malattia, la guerra, la solitudine. Ed è proprio a quest’ultima che Epepe di Ferenc Karinthy dà corpo. Il romanzo porta in scena una situazione da incubo, accompagnata da un’atmosfera surreale, di mistero e straniamento, che si costituisce tutta attorno al tema dell’incomunicabilità, intesa sia come difficoltà di carattere linguistico – legata alla comunicazione vera e propria – sia come timore meschino ed egoista, che vede dietro al bisogno e alla miseria altrui, all’uomo o alla donna soli e abbandonati, gesticolanti per strada in cerca di aiuto, una trappola o una fregatura.
Il protagonista della folle vicenda è il professor Budai, un eminente linguista specializzato in ricerche etimologiche, che conosce venti lingue e ha familiarità̀ con altrettanti idiomi diversi, un instancabile studioso, razionale e caparbio. Diretto ad Helsinki per tenere una relazione ad un congresso di linguistica, finisce senza accorgersene su un volo diretto da tutt’altra parte, ma solo all’atterraggio, quando finalmente si trova in città, capisce di essersi perso.
Inizia così l’odissea personale del linguista, che si ritrova catapultato in una realtà del tutto uguale alla sua, in forma e colori, ma non nei contenuti. Non appena sceso dall’aereo, infatti, il professore di accorge che tutti parlano un idioma incomprensibile anche per un eminente etimologo come lui. Gli sforzi per rintracciare almeno il ceppo linguistico di provenienza della misteriosa lingua sono del tutto inutili, la mimica facciale o i tentativi di farsi capire a gesti nulla possono contro i suoi nuovi concittadini, una massa indefinita, indifferente, violenta, che spinge e urla e vive in code interminabili.
Tutte le forme di comunicazione gli sono precluse, non importa quanto impegno ci metta a cercare di creare un legame con quella società a lui così estranea:
Budai si ritrova a vivere senza punti di riferimento, solo, senza nulla in suo possesso, in un perpetuo stato di angoscia e di ansia, sentendosi sempre ad un passo dal riuscire a decifrare correttamente il senso di tutte le scene a cui assiste o è partecipante attivo. L’unico essere umano con cui riesce a stabilire un minimo contatto, nonostante le barriere linguistiche, è Epepe (Bebe o Tete?), la giovane ragazza che manovra l’ascensore del suo albergo. Con lei e basta.
Nonostante l’iniziale rifiuto viscerale del professore a lasciarsi inglobare dalla città senza nome, il fallimento di ogni suo tentativo di fuggire lo spinge verso la resa, il ricordo di casa appare sempre più sbiadito e surreale, persino una fantasia. Spogliato del suo passato e senza più prospettive, dunque, Budai, sempre più straniato da quella realtà di cui non comprende le dinamiche, finisce per rinunciare alla sua personale resistenza, accantona ogni fantasticheria legata al grande ritorno e, senza più speranze né ottimismo, è costretto ad adeguarsi alla sua nuova esistenza.