L’attuale conflitto nella Striscia di Gaza – seguito alla risposta israeliana agli attacchi da parte di Hamas del 7 ottobre contro civili e militari, i quali hanno causato un migliaio di morti e la presa di 253 ostaggi – ha fatto precipitare una situazione umanitaria già critica da decenni. La guerra a Gaza ha causato finora più di 31.180 morti palestinesi secondo il Ministero della Salute della Striscia gestito da Hamas.
La Striscia di Gaza, parzialmente bloccata da Israele ed Egitto fin dal 2005, ha visto l’interruzione di qualsiasi aiuto umanitario – oltre che il taglio delle forniture di carburante, elettricità ed acqua potabile – già dal 9 ottobre, due giorni dopo gli attacchi di Hamas. Questo blocco totale è stato tolto circa due settimane dopo, in seguito a forti pressioni internazionali, con l’apertura dei valichi di frontiera meridionali di Rafah verso fine ottobre e quello di Kerem Shalom a inizio novembre.
L’agenzia World Food Program (WFP) delle Nazioni Unite riporta come l’intera popolazione di Gaza, ovvero oltre 2 milioni di persone, soffra livelli acuti di insicurezza alimentare, con più di mezzo milione di persone a rischio carestia. La modalità più veloce ed efficiente, ampiamente impiegata prima del blocco, per distribuire aiuti alla popolazione è quella via terra, usando convogli umanitari.
Prima della guerra, circa 500 camion di aiuti entravano ogni giorno a Gaza, un numero che è andato più che dimezzandosi a marzo. Attualmente circa un centinaio di camion entrano in media quotidianamente nella Striscia. Il numero di camion di aiuti, tuttavia, non è mai costante e certamente non è sufficiente per rispondere alle richieste della popolazione civile.
Il 26 gennaio la Corte internazionale di giustizia ha ordinato ad Israele di adottare tutte le misure necessarie per permettere l’approvvigionamento di beni essenziali ed aiuti umanitari alla popolazione di Gaza. Questa dichiarazione fa parte della sentenza provvisoria della Corte relativa al caso mosso dal Sudafrica contro Israele con l’accusa di genocidio. Ciononostante, fonti delle Nazioni Unite hanno sottolineato come a febbraio la quantità di aiuti umanitari che entrava a Gaza era dimezzata rispetto al mese precedente.
La situazione a Gaza e le decisioni totalmente arbitrarie da parte di Israele di bloccare alcuni tipi di aiuti hanno portato allo stremo la popolazione civile.
Alcuni abitanti di Gaza sono stati costretti a consumare mangimi per animali per sopravvivere. L’alto rappresentante dell’Unione Europea per gli Affari esteri e la Politica di sicurezza, Josep Borrell, ha accusato Israele di «usare la fame a Gaza come arma di guerra», affermando che la situazione nella Striscia «non è un disastro naturale».
A queste condizioni si sommano due fatti che testimoniano la gravità delle privazioni sofferte dalla popolazione gazawa. Il 29 febbraio a Gaza City, lungo la strada costiera di Al Rashid, oltre un centinaio di persone sono state uccise e più di 700 sono rimaste ferite quando una folla si è disperatamente ammassata attorno a un convoglio di aiuti. Le autorità gazawe e israeliane hanno fornito resoconti contrastanti su quanto avvenuto, con accuse mosse nei confronti di Israele di aver aperto il fuoco indiscriminatamente sui civili affollati per ricevere gli aiuti.
L’esercito israeliano ha ammesso di aver fatto fuoco, ma «solo quando la folla ha iniziato a comportarsi in maniera pericolosa» e che a loro avviso la maggior parte delle morti è stata causata dalla calca; altri, invece, sarebbero stati investiti dai camion di aiuti. Questo resoconto stride con i racconti da parte di impiegati delle Nazioni Unite, dottori e testimoni oculari secondo i quali la maggior parte dei morti e dei feriti è stata causata da armi da fuoco – o comunque riportava ferite dovute a queste armi.
Una situazione simile si è ripetuta il 14 marzo sempre a Gaza City, presso Kuwait Square, con l’esercito israeliano che ha nuovamente negato le accuse di aver sparato su una folla di civili in attesa di aiuti umanitari, uccidendo una ventina di persone e ferendone 155. L’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari (OCHA) ha dichiarato di aver documentato 14 incidenti di questo tipo a due ingressi di Gaza City tra la metà di gennaio e la fine di febbraio e almeno 11 incidenti aggiuntivi tra l’1 e l’8 marzo, durante i quali sono state segnalate le uccisioni di circa 28 palestinesi.
L’attuale situazione di carestia a Gaza è da considerarsi come frutto di diverse scelte, con la popolazione palestinese nuovamente finita nel fuoco incrociato.
Da una parte vi è Hamas, accusata di avere delle riserve di cibo e altri generi di prima necessità che impiega solo per i propri miliziani, mentre dall’altra si trova Israele che, con le sue politiche post 7 ottobre, stringe Gaza in un blocco. Tra queste, rientra la scelta da parte israeliana di limitare i punti d’ingresso per gli aiuti, a cui si aggiungono i lunghi processi di ispezione dei convogli, la mancanza di canali di comunicazione affidabili tra l’esercito israeliano e le organizzazioni che distribuiscono aiuti, nonché le accuse nei confronti della polizia di Gaza, solitamente incaricata di proteggere i convogli umanitari, di agire con e per conto di Hamas.
Oltre a questo, emerge come Israele non abbia reso nessuna parte di Gaza sicura per la popolazione civile, a causa di spostamenti forzati e spesso multipli di quasi tutta la popolazione. Questi continui spostamenti rendono ulteriormente complessa la distribuzione degli aiuti. Israele afferma di non star limitando gli aiuti a Gaza, mentre accusa le Nazioni Unite di non distribuire adeguatamente gli aiuti a chi ne ha bisogno, tanto da farli finire nelle mani dei terroristi di Hamas.
In particolare, Israele ha accusato l’agenzia dell’ONU per i rifugiati palestinesi, l’UNRWA, di avere tra i suoi 13.000 dipendenti, in gran parte palestinesi, personale (in un numero che varia da 12 a centinaia di individui) che simpatizza o che ha partecipato attivamente agli attacchi terroristici del 7 ottobre. L’UNRWA ha immediatamente preso provvedimenti a riguardo, ma le accuse hanno portato diversi paesi a tagliare i finanziamenti destinati all’agenzia, mettendo a repentaglio gli sforzi a favore della popolazione civile di Gaza.
Gli sforzi internazionali per alleviare le privazioni a cui è sottoposta Gaza devono necessariamente fare i conti con le complicazioni logistiche della situazione e con la stretta israeliana sugli aiuti via terra. Per questo motivo Stati Uniti, Giordania, Egitto, Francia, Olanda, Germania, Regno Unito e Belgio hanno recentemente iniziato una serie di lanci aerei per la popolazione della Striscia. Ogni aereo da trasporto C-130 adoperato può consegnare all’incirca 20 tonnellate di aiuti, quasi l’equivalente di un camion a pieno carico solitamente impiegato prima del blocco israeliano, ma i lanci per via aerea sono estremamente costosi oltre che complicati.
È stato riportato che alcuni lanci di approvvigionamenti sono finiti in mare e solo le persone più abili e prestanti sono riuscite a recuperare gli aiuti, lasciando quelle più fragili a contendersi ciò che rimaneva. Inoltre 5 persone sono rimaste uccise e 10 sono rimaste ferite nei pressi del campo per rifugiati di Al-Shati dopo che un pallet di aiuti è precipitato al suolo in seguito al malfunzionamento del paracadute. I lanci via aerea sono un modo inefficiente di consegnare aiuti, usata solitamente quando non vi sono altre alternative praticabili. Certamente, non sono in grado di soddisfare i bisogni basilari di oltre 2 milioni di persone.
Un’altra modalità di consegna è quella via mare. Il 16 marzo sono terminate le operazioni di scarico delle 200 tonnellate di cibo fornite dall’organizzazione no-profit World Central Kitchen. Queste sono state trasportate su una chiatta trainata dalla nave dell’ONG spagnola Open Arms partita da Cipro il 13 marzo.
Un’altra chiatta di aiuti è in fase di preparazione sempre a Cipro, mentre Stati Uniti, Commissione Europea, Emirati Arabi Uniti e Regno Unito intendono aprire un corridoio marittimo per approvvigionare Gaza. In particolare, una nave della marina americana, la USAV General Frank S. Besson Jr., si sta dirigendo verso Gaza per costruire un molo temporaneo.
Anche la consegna via mare, pur permettendo di trasportare più aiuti e con un costo inferiore rispetto ai lanci aerei, non è senza problematiche. Il problema principale risiede nello scaricare le chiatte sulla spiaggia della Striscia e successivamente caricare i camion destinati alla consegna in un’area segnata da forte insicurezza e con una popolazione disperata, che cerca di ottenere qualsiasi quantità di aiuti.
La via principale rimane la consegna via terra tramite convogli umanitari, che Israele, come riportato, attualmente rallenta o a blocca ai confini della Striscia. La volontà di Israele di invadere la città di Rafah, nel sud della Striscia, in cui si trovano oltre un milione di palestinesi sfollati rischia di far precipitare ulteriormente una situazione già insostenibile dal punto di vista umanitario. Tutto questo sta provocando tensioni tra Israele e gli Stati Uniti, con il presidente americano Joe Biden che ha ipotizzato di condizionare gli aiuti militari che Israele riceve.
Attualmente l’unica certezza è che oltre 2 milioni di civili nella Striscia di Gaza si trovano in condizioni di estrema necessità e sofferenza, mentre Israele continua, nonostante le pressioni internazionali, a rendere sempre più insostenibile la situazione con le sue decisioni relative agli aiuti umanitari.
Articolo di Lorenzo Pellegrini