Tra il 15 e il 17 marzo si sono tenute in Russia le elezioni per scegliere il Presidente della Federazione, che hanno visto per la quinta volta, terza consecutiva, vincere Vladimir Vladimirovič Putin, che ha votato tramite il portale online, primo anno in cui si è utilizzata questa modalità. Molte e da molti anni sono le critiche rivolte sia dall’interno che dalla comunità internazionale sulla libertà e autenticità delle elezioni russe.
I candidati presidenti che non sono stati esclusi sono figure, in realtà, interne al regime di Putin, che votano insieme al partito di quest’ultimo Russia Unita. Tra essi ci sono Nikolai Michajlovič Kharitonov del Partito comunista, Leonid Eduardovič Slutsky del Partito liberal-democratico nazionalista di destra e Vlasislav Andreyevič Davankov del partito Popolo nuovo.
Di frequente, invece, gli oppositori vengono respinti adducendo come pretesto errori burocratici: come successo a dicembre all’ex giornalista Yekaterina Sergeyevna Duntsova, in netto contrasto con le idee di Putin, che, appunto, per mancate firme e per difficoltà nel reperire un avvocato disponibile a certificarne la validità, è stata rigettata all’unanimità da tutti i membri della commissione elettorale centrale.
E come è successo anche, più recentemente, a Boris Borisovič Nadeždin, che solo dopo l’inizio della guerra in Ucraina e l’introduzione delle leggi contro il movimento LGBTQIA+ ha contestato la politica dell’attuale presidente, ma che fino a qualche anno fa faceva parte della squadra per la rielezione di Putin, come osservatore del suo governo.
Avendo vinto queste nuove elezioni Putin rimarrà al potere fino al 2030, potendosi nuovamente ricandidare: nel caso vincesse ancora, governerebbe fino al 2036.
Ciò è stato reso possibile dalla Legge di Emendamento alla Costituzione della Federazione Russa del 2020, che ha modificato, in particolar modo, il terzo comma dell’articolo 81, eliminando così il limite costituzionale dei due mandati consecutivi. Articolo del resto già modificato nel 2012, quando il presidente Putin aveva aumentato gli anni di mandato presidenziale da 4 a 6.
La Legge di Emendamento è stata criticata da molti politologi e giuristi, che hanno espresso dubbi, in primo luogo, sulla correttezza e sulla legittimità, oltre che sul contenuto degli emendamenti, e hanno lamentato la creazione ad hoc di un gruppo di lavoro per l’elaborazione, avvenuta aggirando il limite costituzionale per cui solo gli organi statali possono presentare modifiche della carta fondamentale.
Le critiche del mondo occidentale, però, devono fare i conti con la lunga storia russa, poiché il repentino passaggio dall’assolutismo zarista a quello comunista non ha permesso l’instaurazione di un modello democratico liberale. Una breve esperienza democratica parve profilarsi con Boris Nikolaevič Él’cin ma in breve tempo essa si trasformò in una tragedia sociale, causata anche dalla svendita delle risorse energetiche agli oligarchi, e infine si giunse nel 2000 al primo governo Putin.
Secondo Lucio Caracciolo dunque (Repubblica, 7 marzo 2015), «la Russia non può essere una democrazia perché se lo fosse non esisterebbe […]. Applicarvi un sistema liberaldemocratico di matrice occidentale significherebbe scatenare dispute geopolitiche e secessioni armate a catena, all’ombra di diecimila bombe atomiche» (Gennaro Sangiuliano, Putin. Vita di uno zar, Edizione Mondadori, Milano 2015, p. 6)
Durante le elezioni del 2018, con un’affluenza del 67,5%, Putin aveva vinto ottenendo una maggioranza del 76,6%; in queste ultime, invece, ha superato ampiamente gli scorsi dati arrivando, con un’affluenza di 74,3%, all’87,3% di preferenze, quasi un plebiscito.
Quest’anno, il fine del presidente Putin non era solo vincere ma era quello di ottenere una larga maggioranza per legittimare il suo potere, trattandosi delle prime elezioni dopo l’invasione dell’Ucraina del 2022 e la morte del suo più importante oppositore, Alexei Anatol’evič Navalny: ciò gli permetterebbe di ridimensionare le ipotesi di malcontento della popolazione, la quale dall’inizio del conflitto sta vivendo in condizioni economiche difficili a causa delle sanzioni introdotte dai Paesi occidentali.
Inoltre, in queste elezioni sono stati importanti per la legittimazione del potere di Putin, anche i voti delle 2 repubbliche separatiste di Donetsk e Lugansk, dalle quali ha preso avvio il conflitto, e le 2 regioni di Zaporizhzhya e Cherson, che registrano 4 milioni e mezzo di elettori.
In particolare, in queste due regioni durante l’ultimo giorno di elezioni si sono svolte delle proteste più violente, rispetto ad altre zone del Paese, e droni ucraini hanno colpito dei seggi e provocato degli incidenti.
La riunificazione del Donbass, di Zaporizhzhya e Kherson, avvenuta attraverso un referendum il 30 settembre 2022, è stata definita da Putin un evento storico e fatidico. Il referendum è stato, però, dichiarato dalla comunità internazionale come falso a causa di minacce agli elettori e controlli alle urne.
Putin, nel discorso di ringraziamento dopo la vittoria tenuto nella sede del suo quartier generale, ha dichiarato di voler rendere la Russia più forte. Facendo riferimento al dialogo avuto con il patriarca Kirill ha inoltre riaffermato l’ideologia del Russkiy Mir – cioè del mondo russo– che sta alla base del puntinismo: «Ogni persona, indipendentemente dalla propria appartenenza religiosa o per altre condizioni si sente parte di un’unica famiglia russia unita». Terminando poi con uno sguardo al futuro, ha promesso che «tutti i progetti grandiosi verranno raggiunti».
Nell’ideologia del Russkiy Mir è possibile riscontrare un velato riferimento alle motivazioni poste dallo stesso Putin per legittimare la guerra: l’Ucraina non sarebbe una nazione e non avrebbe il diritto di esistere perché facente parte della Russia, per il fatto che quest’ultima è nata da Kiev.
Già dal primo giorno di elezioni, molte sono state le proteste sia pacifiche che violente, contro il presidente Putin: in particolare gli oppositori hanno versato dell’inchiostro verde nelle urne. Questo colore non è casuale, infatti, durante le manifestazioni contro il regime, i dissidenti sono stati di frequente aggrediti e cosparsi di iodio liquido, un disinfettante che colora la pelle di verde.
Invece, sia nella capitale che in molte altre città russe tra cui San Pietroburgo e nella regione siberiana degli Chanty-Mansi, ci sono state contestazioni più violente durante le quali singole persone hanno cercato di dare fuoco alle schede nelle urne o di incendiare i seggi con delle molotov. Secondo l’ONG OVD-Info, sono più di 74 gli arresti in tutta la Russia per le proteste durante il voto, passibili di una condanna pari ad 8 anni e importanti circostanze aggravanti.
La più importante manifestazione di dissenso è stata “Il mezzogiorno contro Putin”, tenutasi alle 12 dell’ultimo giorno di elezioni, domenica 17 marzo, in Russia e in altre città al di fuori del Paese, davanti alle ambasciate e ai consolati russi.
Proposta arrivata per la prima volta tramite il profilo Instagram di Alexei Navalny che, poco prima della sua morte avvenuta ormai un mese fa, aveva esortato gli oppositori, definiti dallo stesso come «combattenti», a intraprendere una protesta pacifica dicendo che «questa (la protesta) può essere una potente dimostrazione dell’umore del paese». L’azione è stata infine rilanciata il 6 marzo scorso, tramite video social, da Yulia Borisovna Navalnaya, la vedova dell’oppositore, che ha portato avanti la volontà del marito di una protesta pacifica con l’obiettivo di rompere il silenzio ed eliminare la solitudine degli oppositori così da conoscersi e riconoscersi.
Difatti verso le 12, davanti a molti seggi in Russia si sono formate lunghe code, una protesta senza slogan o cartelli ma con l’obiettivo di farsi sentire e votare qualsiasi candidato che non fosse il leader di Russia Unita, come testimonia Steve Rosenberg, inviato della BBC a Mosca. Così da far capire allo stesso presidente ma soprattutto alla nazione e alla comunità internazionale che la Russia non è interamente pro-Putin ma che esiste una parte di popolazione contraria al regime, anche se quasi cancellata a causa delle limitazioni di libertà di informazione e di parola. Quella parte di cittadini che vogliono mettere un punto alla deriva autocratica della ormai democrazia illiberale che Putin sta portando avanti dal 2012.
Anche in Italia, sia a Milano davanti al consolato russo in via Sant’Aquilino, come documentato da Vulcano, che a Roma davanti all’ambasciata russa, la protesta “Mezzogiorno contro Putin” ha portato moltissimi cittadini russi a presentarsi a votare a mezzogiorno di domenica 17 marzo, formando una lunga fila che «raggiungeva tre quarti dell’isolato e si muoveva piuttosto lentamente». Il clima era completamente diverso da quello nella madrepatria, diversi sono stati i cartelli per ricordare i dissidenti morti e gli slogan, sia in lingua russa che in inglese, contro il presidente.
Per i prossimi 6 anni sarà ancora Vladimir Putin il Presidente della Federazione russa: fino al 2030, cioè fino ai suoi 78 anni, la politica interna seguirà sempre più una linea di chiusure e di limitazioni per i cittadini russi.
Sul piano internazionale, invece, sarà determinante il conflitto in Ucraina: non a caso, nei giorni delle elezioni, a Berlino si è tenuto un vertice tra il presidente francese Emmanuel Macron, il cancelliere tedesco Olaf Scholz e il primo ministro polacco Donald Tusk, per capire se si possa adottare una linea comune. Il leader tedesco e quello polacco in accordo con altri leader e ministri europei, tra cui il ministro degli esteri italiano Antonio Tajani, si sono detti contrari alla guerra e a favore di continuare a sostenere Kiev, ma non in conflitto con la Russia: l’obiettivo sarebbe quello di evitare una possibile escalation tra gli Stati. Hanno, inoltre, bloccato il presidente Macron per quanto riguarda la sua politica per cui «nulla va escluso», compreso l’invio di truppe in Ucraina.
Una svolta netta, quest’ultima, nella strategia adottata dal presidente Macron, primo nel 2022 a cercare un dialogo con il presidente Putin subito dopo l’invasione, ma che adesso è convinto che «se la Russia vincerà questa guerra la credibilità dell’Europa sarà ridotta a zero e Polonia, Lituania, Estonia, Romania e Bulgaria sarebbero in pericolo».