Lo scorso 23 aprile è arrivata l’approvazione da parte del Senato della Repubblica del nuovo decreto attuativo del PNRR, già passato alla Camera: 95 i voti favorevoli, 68 i contrari e 1 astenuto.
Il decreto potrà quindi diventare legge, con l’obiettivo di introdurre le misure necessarie ad attuare il Piano nazionale di ripresa e resilienza, elaborato nella sua prima versione nel giugno 2021, sotto l’allora governo Draghi, e modificato più volte: da ultimo, a fine luglio 2023, quando il governo Meloni – per tramite del ministro agli Affari europei Raffaele Fitto – intervenne su 144 obiettivi dei 349 totali, eliminando del tutto o semplicemente escludendo dal PNRR quei progetti che, per via del mancato rispetto delle scadenze stabilite dall’UE, avrebbero messo a rischio l’ottenimento dei fondi.
Come spesso accade in Italia però, il decreto legge – che, dopo l’emanazione da parte dell’esecutivo, entra immediatamente in vigore ma decade se il Parlamento non lo converte in legge entro i successivi 60 giorni – contiene anche misure del tutto estranee alla materia: in particolare, è stato duramente contestato sia in Italia che all’estero l’emendamento, presentato dal deputato di Fratelli d’Italia Lorenzo Malagola, che attribuisce di fatto alle Regioni la facoltà di promuovere l’ingresso delle associazioni antiabortiste all’interno dei consultori.
Mentre in origine l’emendamento stabiliva l’obbligo per le Regioni di organizzare «i servizi consultoriali […] anche con il coinvolgimento di soggetti del terzo settore che abbiano una qualificata esperienza nel sostegno alla maternità», il governo ha poi trasformato tale previsione in una mera facoltà.
Il decreto legge definitivamente approvato dal Senato prevede dunque che le Regioni «possono avvalersi» delle associazioni Pro vita all’interno dei consultori ma «senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica»: ciò significa che i fondi pubblici non potranno essere impiegati a tale scopo.
Come evidenziato da Il Post, tuttavia, ciò non risolve la questione, dal momento che numerosi esponenti dei gruppi antiabortisti sono già attivi nelle strutture consultoriali.
Del resto, già nel 2020 L’Espresso aveva denunciato l’intenzione di Maurizio Marrone, assessore della Regione Piemonte per Fratelli d’Italia, di impedire l’accesso delle donne e persone con utero alla pillola abortiva Ru486 negli stessi consultori e di finanziare con i soldi pubblici l’attività di «idonee formazioni sociali di base e di associazioni del volontariato […] quali, a titolo esemplificativo, il Progetto Gemma avviato dal Movimento per la vita e Centri di aiuto alla vita (CAV)».
L’esplicito riferimento, strumentalizzato allo scopo di legittimare interventi degradanti nei confronti delle persone che richiedono un’interruzione volontaria di gravidanza (IVG) e contrari al principio della laicità dello Stato, è sempre lo stesso: quello all’art.2 della legge n.194/1978, che disciplina il ruolo dei consultori nell’assistere «la donna in stato di gravidanza», tra le altre cose «contribuendo a far superare le cause che potrebbero indurre la donna all’interruzione di gravidanza» (let.d). Proprio qui si citano infatti le «idonee formazioni sociali di base e associazioni del volontariato, che possono anche aiutare la maternità difficile dopo la nascita».
Non è quindi un caso, né tantomeno una garanzia del rispetto del diritto di scelta di ogni donna e persona con utero, se gli esponenti della destra ed estrema destra antiabortista italiana, a partire dalla premier Giorgia Meloni, dichiarano costantemente l’intenzione di applicare «in tutto, anche nella prevenzione» la legge 194.
Una “piena” applicazione della legge 194, infatti, legittimerebbe secondo questa interpretazione l’attività dei gruppi Pro Vita, peraltro privi della professionalità necessaria, allo scopo di “dissuadere” le persone dal fare ricorso all’IVG, con ogni mezzo: anche sottoponendole a trattamenti violenti e degradanti.
Per non parlare del fatto che, impedendo in molte Regioni l’accesso all’aborto farmacologico con pillola Ru486, l’Italia viola le nuove linee guida sulla pillola abortiva pubblicate dall’OMS nell’agosto 2020.
In Italia, dunque, l’IVG si configura come un diritto solo sulla carta, come constatato da numerose testate internazionali, tra cui The Guardian e Le Monde. Anche CNN aveva pubblicato uno speciale in cui, seguendo la vicenda della ventinovenne Emma, lanciava un’allarme sull’obiezione di coscienza in Italia.
I dati ufficiali resi disponibili dall’Istituto Superiore di Sanità e relativi all’anno 2021 confermano l’elevata percentuale di personale obiettore di coscienza tra i ginecologi (63,4%), gli anestesisti (40,5%) e il personale non medico (32,8%), tale da impattare negativamente sull’effettivo accesso all’IVG, con gravi disparità da Regione a Regione. Particolarmente colpite dall’obiezione di coscienza sono Molise, Campania e Puglia.
Inoltre, sempre secondo l’ISS, solo il 68,4% dei consultori presenti sul territorio italiano hanno rilasciato nel 2021 i certificati per l’IVG e «il numero di colloqui IVG supera quello dei certificati rilasciati dai consultori (46.194 colloqui vs 31.065 certificati) verosimilmente per il supporto offerto alle donne con l’obiettivo di “rimuovere le cause che le porterebbero all’interruzione della gravidanza” (art. 5, 194/78)».
Quest’ultima affermazione può facilmente essere tacciata di ipocrisia, alla luce di quanto finora evidenziato in merito all’attività violenta dei gruppi Pro Vita all’interno di consultori e ospedali e a fronte delle numerose inchieste, tra cui quelle della giornalista Sara Giudice, che hanno denunciato gli ostacoli insormontabili che spesso impediscono l’accesso all’IVG.
Il report Mai dati, realizzato da Chiara Lalli e Sonia Montegiove e pubblicato dall’Associazione Luca Coscioni già nel 2022, aveva inoltre denunciato l’incompletezza dei dati forniti dal Ministero della Salute: a novembre 2021, ben 72 ospedali italiani avevano «tra l’80 e il 100% di obiettori di coscienza», «22 ospedali e 4 consultori con il 100% di obiezione tra medici, ginecologi, anestesisti, personale infermieristico e OSS» e «18 ospedali con il 100% di ginecologi obiettori».
Ben 11, infine, le regioni in cui almeno 1 ospedale presentava il «100% di obiettori»: Abruzzo, Basilicata, Campania, Lombardia, Marche, Piemonte, Puglia, Sicilia, Toscana, Umbria, Veneto.
L’obiezione di coscienza ostacola così anche il lavoro del personale non obiettore, che non solo è costretto ad operare in condizioni di grave difficoltà e di carenza di operatori, ma subisce costantemente, come denunciato anche dal Consiglio d’Europa, fenomeni di mobbing e denunce per omicidio. Non è raro quindi che i non obiettori si “convertano” all’obiezione di coscienza a causa delle pressioni e discriminazioni subite nell’ambiente di lavoro e per evitare che la propria carriera professionale venga danneggiata.
Sia le donne e persone con utero sia il personale non obiettore di coscienza subisce dunque sistematiche violenze nelle strutture pubbliche.
Lo scorso 26 aprile, il Centro donne contro la violenza di Aosta ha dichiarato di aver ricevuto numerose «segnalazioni di donne che, giunte in presidi sanitari pubblici del territorio regionale per accedere all’interruzione volontaria di gravidanza, sono state negli stessi luoghi sottoposte a indebite interferenze e pressioni da parte dei volontari, consistenti nell’imporre l’ascolto del battito fetale o nella promessa di sostegni economici o beni di consumo, con il preciso intento di dissuaderle dalla scelta di abortire, personalissima e spesso sofferta».
Esprimendo la propria preoccupazione in merito all’emendamento di Malagola, il Centro ha aggiunto che «La scelta legislativa di autorizzare il ricorso, in questa fase, alla presenza di enti del terzo settore che ideologicamente si battono per l’abolizione della legge sull’interruzione volontaria di gravidanza, porta con sé il rischio concreto di vittimizzazioni dovute all’esercizio di pressioni psicologiche sulle donne […] L’aborto non è una concessione ma un diritto della donna e deve essere garantito dalla possibilita di rivolgersi ai consultori, alla presenza di figure professionali qualificate, senza il pericolo di essere sottoposte a giudizi morali o a manipolazioni».
E così ancora oggi, a ben 46 anni dall’introduzione della Legge n.194/1978, dobbiamo continuare a lottare affinché l’aborto non sia più appannaggio della religione o della morale: anche per questo la campagna #LiberaDiAbortire propone ormai da tempo una nuova legge che superi la 194 e garantisca un «vero diritto all’aborto».
Ma la battaglia si prospetta come un ennesimo percorso a ostacoli, in un Paese in cui la stessa ministra per le Pari Opportunità e la Famiglia Eugenia Maria Roccella, manipolando la realtà, afferma che «le femministe non hanno mai considerato l’aborto un diritto» e che, sebbene ci sia una legge, «non c’è un diritto».
Di recente, anche l’attuale direttrice del TG1, Incoronata Boccia, aveva definito l’aborto un «delitto» più che un diritto.
E allora, ripetiamocelo ancora e ancora: l’aborto è un diritto. È anche un intervento che può essere fondamentale per garantire la salute psicofisica di ogni donna e persona con utero. E sì, è anche, ancora, una questione di classe.
Perché se il diritto di accesso all’IVG venisse cancellato, non si smetterebbe per questo di abortire: semplicemente – come del resto accadeva in passato – solo le persone con maggiori disponibilità economiche sarebbero in grado di farlo in sicurezza, per esempio recandosi all’estero. Tutte le altre, semplicemente, cercherebbero di abortire lo stesso, con scarsi mezzi e in condizioni precarie, mettendo a rischio la propria vita e la propria salute.
Ma, per chi volesse ridurre l’interruzione volontaria di gravidanza a una mera questione di ricchezza e povertà, sfatiamo un altro mito: ci sono persone che, semplicemente, non vogliono essere madri.
Alcune non lo vogliono ora. Altre non lo vorranno mai. Nessuno può giudicare una decisione personalissima, che si radica nell’intimo di ognunə di noi, nel nostro carattere, nei nostri progetti e nelle nostre aspirazioni, nel nostro passato e nel nostro futuro, e su cui solo noi dobbiamo avere l’ultima parola. Non la classe dirigente. Non la Chiesa cattolica e nessun’altra istituzione o dottrina religiosa. Non le altre persone. Ognunə di noi, solo per se stessə.
Ripetiamocelo ancora, in uno Stato che non è mai stato laico e che lo è sempre meno – tanto che nel 2021 il Vaticano aveva esplicitamente richiesto la modifica del DDL Zan – e in cui il governo recupera tesi di ascendenza fascista, promuovendo la natalità in difesa dell’«etnia italiana».
Ripetiamocelo, in uno Stato che relega le donne al ruolo di mogli, madri, custodi del focolare domestico, e che ordina loro di avere come «prima aspirazione […] quella di essere mamma».