Il centro di ricerca sul benessere dell’Università di Oxford, l’azienda americana Gallup e la rete per le soluzioni di sviluppo sostenibile dell’Onu si occupano di raccogliere e analizzare periodicamente i dati relativi all’indice di felicità nel mondo, pubblicando il relativo The World Happiness Report. Si tratta di un rapporto che contiene tutti i risultati che sono stati tratti dallo studio di sondaggi sulla percezione della felicità (e dunque dell’infelicità) svolti in più di 140 paesi.
Come spiega un recente articolo di WIRED dedicato all’argomento, alle persone coinvolte viene chiesto di valutare la propria vita su una scala da 0 a 10, dove dieci è il massimo standard (di vita) auspicabile. Inoltre, viene tenuto conto di fattori importanti quali il benessere del proprio paese d’origine, l’aspettativa di vita, l’età e il genere.
Come già constatato da diversi anni ormai, i paesi che dominano il podio sono Finlandia, ancora una volta in prima posizione come paese più felice, Danimarca e Islanda.
Ad occupare la fascia più bassa della classifica troviamo la stragrande maggioranza degli Stati africani, nonché diversi Paesi del lontano e medio oriente come Myanmar, Sri Lanka, Bangladesh e, in ultima posizione, l’Afghanistan. Purtroppo le crisi umanitarie che hanno travolto Yemen, Ucraina e Palestina negli ultimi anni sono evidenti e ampiamente documentate dai media internazionali; così come è noto da tempo il grave problema di povertà e guerre civili nel continente africano. È chiaro che la collocazione di questi paesi riflette una privazione della felicità che ha cause facilmente rintracciabili.
La vera sorpresa sono i dati che provengono da Paesi occidentali che, almeno in superficie, non soffrono problematiche evidenti. In effetti, il campanello d’allarme che emerge dall’ultimo World Happiness Report è il divario sempre più grande tra l’indice di felicità riscontrato fra gli adulti e le persone più mature e quello riscontrato tra i giovani fino ai 30 anni. Come recita il titolo di un articolo pubblicato su Repubblica lo scorso 20 marzo, in occasione della giornata mondiale della felicità: «la crisi di mezz’età arriva a vent’anni: i giovani d’oggi sono molto più tristi dei genitori».
La fascia più critica sembra proprio quella tra i 20 e i 30 anni, ovvero quando si inizia davvero a prendere consapevolezza del proprio futuro e delle incombenze che questo porta con sé.
Secondo il Surgeon general degli Stati Uniti Vivek Murthy, i dati rivelano che i giovani nordamericani sono sensibilmente meno felici rispetto alle generazioni precedenti e lo stesso historic shift si sta verificando anche in Europa: lo dimostrano il posizionamento di Stati Uniti, Germania e Francia, che non figurano nella top 20; ancora peggio Italia, Spagna, Grecia e Portogallo, che non rientrano neanche nella top 30.
Di nuovo secondo i dati dei rapporti precedenti, sembra che a partire dal 2017 si sia verificata un’inversione di tendenza per cui il malessere e l’infelicità hanno iniziato ad affliggere di più i cosiddetti giovani-adulti rispetto ai loro genitori e nonni. Per il Professor Jan-Emmanuel De Neve, direttore del Centro di ricerca sul benessere dell’Università di Oxford: «Kids start out happier before they slide down the U-curve towards a mid-life crisis before [wellbeing] picks up again». Tuttavia, le nuove informazioni emerse dai dati del triennio 2021-2023 spingono verso una manifestazione di disagio che ben precede la mezza età.
Negli ultimi anni si è posto l’accento sulle questioni relative alla salute mentale, al benessere psico-emotivo e non solo fisico, soprattutto fra i giovani.
Si è lavorato tanto sugli strumenti di supporto così come su veri e propri percorsi di terapia in caso di necessità. Molti personaggi pubblici hanno raccolto il messaggio e preso a cuore il tema, cercando di scardinare i tabù e invogliando le persone che sperimentano questo tipo di difficoltà a chiedere aiuto.
Ciò nonostante, avere coscienza di soffrire un malessere e agire di conseguenza non sempre equivale a una maggior serenità. Come si legge nel sopracitato articolo di Repubblica, ciò che danneggia l’indice di felicità fra le giovani generazioni sono sia problematiche di ordine generale come le guerre e il cambiamento climatico, sia fattori più vicini al proprio quotidiano come la disparità salariale, i costi del mercato immobiliare, la mancanza di stabilità lavorativa e la conseguente difficoltà nel rendersi indipendenti o costruire una famiglia, l’incertezza sulla futura età pensionabile e così via. L’insieme di questi elementi si manifesta in sfoghi di diverso grado: crisi esistenziale, depressione, ansia, impulsi autodistruttivi, tanatofobia e ipocondria, o un più “semplice” senso di frustrazione, insoddisfazione e impotenza di fronte alla realtà.
Anche la pagina instagram Insanity Page (@insanitypage) ha condiviso la notizia, chiedendo agli utenti di esprimere la loro opinione nei commenti. È interessante notare come si sia acceso un forte dibattito fra coloro che appartengono alla fascia d’età presa in considerazione finora, ovvero millennials e generazione Z, e le generazioni più adulte, cioè baby boomers e generazione X.
Si tratta di uno spaccato, tutto italiano in questo caso, in cui è evidente la difficoltà di comprensione reciproca dovuta al gap generazionale, che dà origine a due punti di vista completamente differenti.
Commenti come «hanno tutto facile, sono senza obiettivi», «troppo tempo sui social», «sono deboli», «non hanno voglia di fare», «non devono più combattere per nulla» si scontrano con altri come «se non vi rendete conto che questi problemi esistono allora il problema siete voi«, «non c’è empatia solo arroganza», «le generazioni passate sono la classe dirigente sfruttatrice di oggi», «oggi siamo messi peggio di Fantozzi». Non serve specificare quali siano gli autori della prima categoria di commenti e quali della seconda, è lapalissiano.
Queste considerazioni danno credito ai dati analizzati finora: si tratta di un’effettiva inversione di tendenza che parte in primo luogo dalla concezione che si ha della vita, in gran parte modellata dalle caratteristiche del momento storico nel quale si è nati e cresciuti, e dalle possibilità che la vita stessa può offrire. Ciò determina la scala di valori che contribuiscono al raggiungimento della felicità o del benessere del singolo individuo e del suo micromondo. Secondo gli esperti citati in quest’articolo, si tratta di una red flag della nostra società ed è necessario affrontare con interventi dall’alto, a partire dagli stessi governi.