Del: 25 Aprile 2024 Di: Nina Fresia Commenti: 0
Per non dimenticare. La Risiera di San Sabba

Dal 16 febbraio al 28 aprile del 1976 la Corte d’Assise di Trieste ha giudicato in processo i crimini commessi alla Risiera di San Sabba negli anni dell’occupazione nazifascista. Come riportato anche sulle mura dell’opificio, oggi visitabile e adibito a museo della memoria, dal capo di imputazione sono stati omessi i reati di omicidio commessi ai danni di partigiani e componenti politici della Resistenza. Secondo la Corte, si trattava di atti che muovevano dal contesto della guerra ed erano da essa motivati. Con una buona dose di cinismo (considerando che quel processo ha comunque, seppur tardivamente, punito due ufficiali accusati di persecuzione razziale) un pannello della Risiera espone una domanda al visitatore: «si trattò dunque di un processo inutile?». Un tentativo di risposta è riportato immediatamente dopo attraverso le parole di Simon Wiesenthal, sopravvissuto all’Olocausto: «chiunque pensasse ad un nuovo fascismo deve sapere, che alla fine sarà sempre la giustizia a vincere. Anche se i mulini della giustizia macinano lentamente».

Ma mentre questo tanto lungo quanto essenziale ruotare degli ingranaggi avanza, cosa fare per mantenere vivo l’interesse? E anche quando l’estenuante processo si è concluso, come coltivare e nutrire la memoria?

È visitando luoghi come la Risiera di San Sabba che non si esaurisce mai il ricordo e il monito della storia. Entrando nell’edificio si ha proprio la percezione di star respirando un’aria diversa, si sente sulle spalle un peso invisibile, come un senso di colpa per aver a lungo ignorato una grossa macchia nera d’inchiostro che impiastra le pagine del nostro passato. L’edificio è stato, infatti, uno dei quattro Polizeihaftlager (campo di detenzione di polizia) in Italia insieme a quelli di Fossoli, Borgo San Dalmazzo e Bolzano. Ma era l’unico che disponeva di un forno crematorio.

Sempre rifacendosi a quanto ricostruito dalla Corte di Trieste, la Risiera era un campo di transito per gli ebrei perseguitati e destinati a partire dalla Stazione centrale della città verso Polonia e Germania. Ed era l’ultima tappa per i prigionieri politici: antifascisti e partigiani italiani, sloveni e croati qui venivano incarcerati e spesso eliminati. Durante il giorno, era loro imposto lo svolgimento di diversi lavori, tra i quali figuravano la preparazione della legna destinata al forno crematorio, il recupero degli abiti delle vittime e la costruzione delle proprie stesse minuscole celle.

Una delle zone che è possibile visitare è infatti quella delle 17 micro-celle larghe 1,20 metri e alte 2 metri in cui venivano stipati fino a 6 prigionieri. Durante alcuni lavori di restauro nel 2013 sono state ritrovate alcune scritte incise sul muro che lasciano una traccia di chi ha transitato da quelle strette pareti prima della deportazione, durante la reclusione o nelle ora precedenti alla propria morte presso la Risiera. Su uno schermo del museo scorrono le immagini di nomi segnati sulla pietra (Lidia, Vitez, Giuseppe, Ria); spesso i detenuti riportavano le proprie generalità, come ricorda Celestin Rodela, sopravvissuto alla prigionia: «Sapevamo che nel cortile venivano bruciate le persone […]. Sulla parete ho tracciato, credo con un chiodo, il mio nome e i miei dati per far sapere, dopo la liberazione, dove ero finito». Altre volte, invece, l’impronta che si voleva lasciare era di diversa natura: «Fedora amor mio ti amo fino alla morte» oppure «Qui siamo 4 fanciulle tutte giovani d’anni 19». Sempre durante alcune opere di manutenzione, è stata rinvenuta nella cella numero 9 una stella partigiana in tessuto nascosta in un buco di intonaco: un piccolo pezzo di stoffa rossa, ora appesa in una teca, che però racchiude ed evoca un grande sacrificio.

Nel cortile interno ora sono state poste una scultura in metallo e una grande piastra di acciaio, ma quando il Lager era attivo e prima che i tedeschi distruggessero quante più prove possibili lì erano collocate la ciminiera alta 40 metri, l’ex sala macchine e l’ex sala caldaie. Proprio qui venivano uccisi i detenuti e smaltiti i loro corpi.

Sui metodi impiegati per portare a termine tali barbarie vi sono diverse testimonianze, che comprendono l’asfissia tramite gas, l’uso di corpi contundenti, l’impiccagione e la fucilazione.

Attraversando il sottopassaggio che porta al cortile, all’area delle micro-celle e alla stanza museale, ci si imbatte sulla sinistra nella “cella della morte”. Come indica la sua denominazione, era il luogo dedicato a chi andava incontro a un’esecuzione o a uno smistamento dall’esito infausto. E mentre si osserva il silenzio che riempie quella stanza spoglia nel tentativo di immaginare che cosa abbiano provato, pensato, gridato gli uomini e le donne che l’hanno attraversata, tornano alla memoria le parole in una lettera di un giovane datata 5 aprile 1945:

«Se quanto temo dovrà accadere sarò una delle centinaia di migliaia di vittime che con sommaria giustizia e in un campo e nell’altro sono state mietute. Per voi sarà cosa tremenda, per la massa sarà il nulla, un’unità in più ad una cifra seguita da molti zeri. Ormai l’umanità si è abituata a vivere nel sangue.»

Queste parole dedicate alla fidanzata Laura, sono di Pino Robusti: uno studente triestino di architettura fucilato all’età di 22 anni e bruciato nel forno della Risiera di San Sabba.

Per far sì che i processi e i loro esiti abbiano un significato, per mantenere attivo l’esercizio della memoria e per ricordarci che la brutalità è un’eccezione, non una regola umana, è fondamentale conoscere e respirare l’aria di luoghi come questo. Ed è importante oggi 25 aprile, Festa della Liberazione, così come lo è tutti i giorni. Perché Pino Robusti aveva ragione, ma dobbiamo impegnarci a smentirlo: anche se ci siamo abituati alla violenza e ai massacri, è tempo di resistere alla consuetudine.

Nina Fresia
Studentessa di scienze politiche, curiosa per natura, aspirante giramondo e avida lettrice con un debole per la storia e la filosofia. Scrivo per realizzare il sogno della me bambina e raccontare attraverso i miei occhi quello che scopro.

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