Radici racconta fatti, personaggi e umori della storia: tanto della Prima Repubblica italiana quanto di altri luoghi e altri tempi, o dei loro intrecci. A questo link è possibile trovare gli articoli precedenti della rubrica.
Questa storia, il sangue di cui è cosparsa e gli attori che vi hanno aderito, affonda le sue radici nelle montagne.
Da Est a Ovest della valle Bosna si estende infatti la catena montuosa delle Alpi Dinariche, che attraversa gran parte dell’Europa meridionale, per poi incastonarsi entro il paesaggio bosniaco, circondato nella sua capitale, nonché nucleo e cuore pulsante della Bosnia ed Erzegovina multietnica ed eterogenea.
I monti Treskavica, Bjelašnica, Jahorina, Trebević e Ingman si elevano imponenti attorno a Sarajevo, città che sorge, per opera della dominazione ottomana, proprio in seno alla sua straordinaria posizione di naturale roccaforte. Le origini geografiche disvelano così la più pura contraddizione che intesse le trame di questa perla di cultura e vita: se infatti i suoi promontori ne attestano la naturale propensione alla difesa, alla protezione da ciò che gli è distante;
ecco che gli avvenimenti che hanno attraversato quel lembo di terra ci rendono conto di un fulcro dell’incontro fra popoli, religioni e modi di vivere.
Sarajevo si distende lungo i nodi della nostra storia contemporanea come terra cruciale, visceralmente connessa con i fatti più emblematici del suo tempo, di cui infatti conserva un legame privilegiato, unico e in sé primordiale. È terra osservante, scrutatrice, all’alba del ventesimo secolo, persino della morte dell’arciduca ed erede al trono dell’Impero austro-ungarico Francesco Ferdinando.
Agli inizi degli anni ’90 questa vivacità tumultuosa crollerà drammaticamente sugli abitanti della città, piombando proprio dalle montagne che ne segnarono la nascita e la prosperità militare.
Sarajevo, come l’intera Bosnia ed Erzegovina, si trovò dal 1990 in una situazione precedentemente mai verificatasi: le dichiarazioni di indipendenza di Slovenia, Croazia e Macedonia resero infatti formale quella frammentazione dello stato della Jugoslavia (il cui processo iniziò dalla morte del leader comunista Tito, risalente al 1980), che d’un tratto spalancò le porte al grande sogno nazionalista di conferire ad un’etnia un’identità nazionale, propria e immutabile.
Se la questione etnica risultava un problema di relativa difficoltà per gli altri territori balcanici, la Bosnia per sua costituzione racchiudeva minoranze di origine serba e croata, oltre alla componente di musulmani che abitavano per discendenza ottomana il territorio. Il caso bosniaco rappresentava una materia la cui oscura importanza era riconosciuta fortemente dai leader politici contingenti. Questi ne bramavano il possesso, in nome di un’identità nazionale da preservare, di un’etnia da ristabilire in unicità, distante dall’ombra musulmana dei “cognacchi”, un disegno la cui prospettiva spiccatamente nazionalista avrebbe da lì a poco sparso il sangue di una tragedia, in procinto di consumarsi.
Il 29 febbraio 1992 sancisce così quel destino fatalmente inscritto, che consegnerà nuovamente il conflitto alle terre bosniache.
Contesa aspramente dalla Serbia e dalla Croazia nel clima di disperata tensione che aleggiava intorno all’ex Jugoslavia, la Bosnia giunge alla volontà di affermazione massima del proprio dominio nonché autonomia nazionale, sancendo attraverso un referendum, a cui aderirono bosniaci e croato-bosniaci, la propria Indipendenza, con il 90% dei votanti favorevoli.
La votazione testimonia un primo seme di quel conflitto che stava per gettarsi sull’Europa orientale: al referendum non partecipò infatti la minoranza serba, avulsa alle logiche indipendentiste e orientata al disegno politico del Presidente della Serbia Milosevic, il cui progetto prevedeva una ferma e incondizionata annessione, in nome della preservazione del popolo di origine serba sul territorio ostile.
Fu lo stesso Milosevic ad ordinare, pochi giorni dopo la dichiarazione d’Indipendenza del 3 marzo, l’accerchiamento della città di Sarajevo, che venne così assediata nel suo perimetro montuoso, da circa 13.000 unità dell’esercito serbo-bosniaco, che così imposero sulla capitale oltre tre anni di bombardamenti e morti, oltre alla chiusura, netta e sentenziosa, dello spiraglio di libertà.
A sorprendere maggiormente fu la metodologia dell’assoggettamento, la prassi con la quale i cecchini perseguirono l’uccisione di circa 10.000 civili, traditi dalle loro stesse alture, dalle quali i bombardamenti proseguirono ininterrottamente. Si svela così il ritorno di una guerra che si combatte anche (soprattutto) attraverso gli occhi di timore dei cittadini disarmati, alienati in una città strappata dalla sua indole cosmopolita, dalla sua gente, dall’indipendenza appena conquistata. Fra questi, si ricorda la sparatoria sul mercato di Sarajevo, che causò 68 morti e la certezza che ciò che stava interessando il cuore dell’Est Europa necessitava di essere ascoltato al di fuori.
In questo panorama di spietato disordine e alienazione, l’intervento della NATO sul campo rivelò però impreparazione, sintomatica di una Comunità europea rimasta all’euforia che suscitava la fine della Guerra Fredda, la fine della Storia stessa come pronosticato, invano, da Fukuyama. Le forze europee non impedirono infatti al conflitto di perpetuarsi nelle cavità della desolazione di una Sarajevo decimata, impossibilitata ad organizzare una resistenza utile, bloccata in ogni linea di passaggio.
All’interno della città, le sentinelle serbo-bosniache rastrellavano alcuni civili controllando le vie principali del centro, negando ad essi qualsiasi tipo approvvigionamento. Il piano era nitido: sfinire la popolazione locale e mantenere la supremazia sui monti, sottomettendo il neonato Stato della Bosnia, fino alla sua disgregazione.
La fine del conflitto fu nel 1996, a seguito di una presa di posizione forte da parte delle Nazioni Unite, che condannarono Milosevic e, dopo aver represso 8.000 unità serbe sul territorio bosniaco, favorirono la diplomazia fra le varie nazioni jugoslave.
L’episodio determinò a suo modo l’esito di un secolo, in cui il germe del nazionalismo non smise mai veramente di mietere vittime.
Ad oggi, la città di Sarajevo è abitata quasi esclusivamente dai musulmani bosniaci, e si costituisce di circa 70 mila cittadini in meno rispetto all’inizio dell’assedio, svaniti nell’ombra di quelle misteriose montagne, portatrici di quel momento in cui la storia ci ricordò che non si era ancora conclusa.