Del: 19 Maggio 2024 Di: Andrea Pravato Commenti: 0
India al voto: è davvero la madre di tutte le democrazie?

Ad aprile 2023, l’India è diventata ufficialmente il Paese più popoloso al mondo, spezzando il dominio detenuto per ben 73 anni dalla Cina, grazie ad una popolazione che sfiora il miliardo e mezzo. Non solo l’India detiene il record di Paese più popoloso, ma è anche di gran lunga la democrazia più grande del mondo, o come ha detto il Primo Ministro indiano Narendra Modi, «la madre di tutte le democrazie».

Infatti, il 19 aprile sono iniziate le più grandi elezioni della storia, che termineranno il 1° giugno, con lo spoglio dei voti previsto per il 4 giugno. Circa 969 milioni di persone aventi diritto al voto con ogni probabilità riconfermeranno il Primo ministro in carica, Narendra Modi, leader del partito conservatore Bharatiya Janata Party (BJP), per il terzo mandato, eguagliando così il record di Jawaharlal Nehru.

Con gli sfavori del pronostico la Indian National Developmental Inclusive Alliance (INDIA), alleanza formata da 28 partiti all’opposizione, cercherà di spezzare l’egemonia di Modi. Ma come si gestisce un’impresa logistica ed organizzativa di tale entità? Ma soprattutto davvero l’India può davvero essere considerata «la madre di tutte le democrazie» o le parole di Modi suonano più come un’auto-celebrazione? Nel tentativo di dare una risposta a queste domande, emerge una tensione tra la quantità e la qualità. Perché i numeri gonfiano e celebrano la democrazia indiana, ma, smaltita l’ubriacatura che provocano, ci lasciano di fronte a un Paese alle prese con un governo che non digerisce le opposizioni, la stampa indipendente e le minoranze etniche.

Una democrazia più di quantità che di qualità.

In termini quantitativi, l’India si presenta legittimamente come «la madre di tutte le democrazie». Quasi un miliardo di persone chiamate al voto, più della popolazione di Russia, Stati Uniti ed Unione Europea messa insieme. Le elezioni si stanno svolgendo in 28 stati e nell’arco di 44 giorni: il processo elettorale più lungo della storia. Ad oggi l’affluenza, seppur in lieve calo rispetto al 2019, si attesta al 64,5%. Una macchina logistica senza eguali nella storia in termini numerici: circa 15 milioni di personale elettorale  sta viaggiando per tutta l’India, dislocandosi in 1 milione di seggi per portare l’apparecchiatura necessaria per il voto elettronico.

È doveroso ricordare che una legge del 2019 obbliga la presenza di un seggio elettorale a non più di 2 km da ogni centro abitato. Questo fa sì che si debba arrivare anche nei centri abitati più remoti. In un territorio che va dai massicci dell’Himalaya fino alle migliaia di isole disperse nell’Oceano Indiano, e dove le reti di comunicazioni non sono capillari, il personale elettorale è obbligato a ricorrere ai mezzi più disparati per raggiungere i seggi. Non è raro vedere i funzionari elettorali che si muovono a cavallo, in barca e persino in elicottero per raggiungere i centri abitati, come per esempio nel 2019 quando arrivarono  nel seggio elettorale più alto del mondo a 4650 metri.

Ma se questi numeri destano stupore e curiosità, d’altro canto sempre sui numeri si scorgono le crepe della «madre delle democrazie». Innanzitutto, secondo N. Bhaskara Rao, presidente del New Delhi-based Centre for Media Studies,  un processo elettorale così lungo avvantaggia il partito al governo, che ha l’opportunità di usare le infrastrutture politiche per la propria propaganda elettorale, in quanto il silenzio elettorale sarebbe infattibile per 44 giorni. Ma ancor di più, sottolinea Bhaskara Rao, ciò che contraddistingue la politica indiana è la realpolitik , per cui ciò che conta è attrarre più elettori possibili, indipendentemente dalla bontà del progetto politico  e dal rispetto dei principi di garanzia pluralista di una democrazia.  

L’India è costituita maggiormente da induisti, per circa l’80%, e da un 15% circa di musulmani, con il restante formato da praticanti gianisti, cristiani, buddhisti e altre religioni minori. Con una presenza così massiccia di elettori induisti, ne deriva una semplice equazione: sull’etnia indù si giocano le elezioni. Narendra Modi ha completamente sposato questa strategia con il Bharatiya Janata Party (BJP), ponendo al centro della sua agenda gli induisti, ispirandosi ai principi del nazionalismo indù, noto anche come Hindutva.

Secondo questa ideologia, la cultura indiana è sinonimo della cultura induista.

Una sorta di etnia eletta, che non ha nulla da spartire con i Musulmani, che ad oggi sono la minoranza più discriminata in India. Questa linea politica risulta evidente in diverse azioni del governo. L’esempio più eclatante è la controversa revoca dell’autonomia  alla regione del Jammu  e Kashmir, a maggioranza musulmana. Sotto il velo di un’ India più unita, come evocato da  Modi, si nasconde una storia decennale di persecuzioni e privazioni alla popolazione musulmana.

Oppure l’implementazione del Citizenship Amendment Act del 2019, che garantisce la cittadinanza alle minoranze indù arrivate in India prima del 2014 da Afghanistan, Bangladesh e Pakistan. Per la prima volta in India si concede la cittadinanza sulla base di criteri religiosi: non di certo una legge a tutela del pluralismo religioso. Inoltre, prima dell’inizio delle elezioni, il Primo Ministro Modi ha inaugurato un tempio Indù sorto sulle macerie di una moschea abbattuta nel 1992 da un gruppo di fondamentalisti indù, il che ha suscitato indignazione tra la comunità musulmana.

Il nazionalismo etnico di Modi è corredato da misure atte a silenziare le opposizioni e le minoranze, andando prima di tutto a soffocare i media indipendenti. Un clima ostile alle voci critiche e a chi dissente dalla narrazione del governo, come evidenziato dalle classifiche sulla libertà di stampa, dove l’India dall’insediamento di Modi nel 2014 al 2024, è scivolata dal 140 esimo al 159 esimo posto. Inoltre, Modi ha  sistematicamente assoggettato la magistratura alla propria volontà , favorendo figure vicine al Bharatiya Janata Party e incriminando attivisti ed avversari politici.  

Infatti, come ha sottolineato la docente Maya Tudor, questo progressivo deterioramento del regime democratico, non è figlio di un’azione violenta come un colpo di Stato, ma procede lentamente sbriciolando colonne portanti di una società democratica, come l’autonomia della magistratura  ed una stampa libera. L’accentramento del potere dell’esecutivo, l’incarceramento degli oppositori politici e l’insofferenza verso il giornalismo indipendente, sono sintomi di una democrazia ammalata.

Non è sorprendente, quindi, sommando questi elementi, che l’India sia considerata ormai un regime ibrido, a cavallo tra autocrazia e democrazia.  La certa rielezione di Modi non rappresenterebbe una rottura con questa tendenza: anzi, il suo mandato sarà in continuità con il presente. Per l’India i prossimi 5 anni saranno decisivi per capire da che parte stare.

Commenta