Del: 16 Maggio 2024 Di: Clara Molinari Commenti: 0
Proteste studentesche, il difficile equilibrio tra contestazione e dialogo

Scontri, divisioni, tensioni. Parole che da settimane si rincorrono lungo il fiume di proteste che unisce Stati Uniti ed Europa, Asia e Medio Oriente. Parole che cambiano forma nel tentativo di stare al passo con gli eventi e che lasciano spazio ad accuse e incomprensioni. Sono le parole scritte dagli studenti universitari che si sono resi protagonisti di una delle più grandi rivolte studentesche dagli anni Settanta a questa parte, condensata in un’onda mediatica a suo modo senza precedenti. Un’onda tanto ampia da rendere difficile distinguere i contenuti di ogni singola protesta, prestandosi a facili livellamenti ideologici.

Nelle università americane le proteste sono iniziate all’indomani del 7 ottobre e delle prime operazioni di Israele nella Striscia di Gaza. Columbia University, Yale, University of California, più di cento atenei del Paese hanno registrato una serie di manifestazioni – amplificate a dismisura dalla cassa di risonanza dei media – che ruotano intorno a una richiesta comune: taglio agli investimenti legati a Israele (o alle aziende che traggono profitto dalla guerra, come i produttori di armi) e interruzione delle collaborazioni accademiche con istituzioni israeliane. Il crescendo di tensioni ha acuito le divisioni e i toni della discussione, dando vita a posizioni sempre più inconciliabili, tra accuse di antisemitismo e islamofobia, sospensioni e arresti (più di 2.800 dal 18 aprile).

In poco tempo le proteste hanno raggiunto il Regno Unito e l’Europa, il Libano e l’India. Le università italiane non sono venute meno all’appello: il 5 maggio le mobilitazioni a supporto del popolo palestinese sono sfociate in quella che viene definita “intifada studentesca”, con tende di protesta piantate di fronte al Rettorato dall’Alma Mater di Bologna, subito sbarcate anche nel chiostro di via Festa del Perdono a Milano. Le richieste del movimento Giovani Palestinesi d’Italia, in prima linea nelle mobilitazioni, sono chiare: che le università italiane denuncino l’operato di Israele nella Striscia, e che esprimano «solidarietà alla popolazione palestinese fornendo assistenza con tutti i mezzi possibili».

Fa seguito una richiesta che può essere riassunta con un’espressione tanto discussa quanto controversa, causa di una divisione netta – a dir poco insanabile – all’interno della comunità accademica: boicottaggio culturale. Nel comunicato pubblicato sui social dai Giovani Palestinesi si invita ad attuare un «boicottaggio totale del sistema accademico israeliano». Le università italiane intrattengono diversi accordi di scambio con le università israeliane e le proteste che stanno attraversando tutta Italia ne chiedono la rescissione.

E reclamano anche la risoluzione del bando Maeci 2024 per la collaborazione tra le istituzioni italiane e israeliane in materia di ricerca scientifica. Sapere e ricerca possono essere utilizzati come strumento di pressione e denuncia dell’operato di un Paese? Questo il punto divisivo. Inevitabile chiedersi se sia accettabile, oltre che proficuo, trascinare anche il mondo accademico nella logica delle cortine di ferro.

Già a febbraio noi di Vulcano abbiamo dialogato con alcune liste studentesche per conoscere le loro posizioni su una mozione presentata in Senato accademico (ma non accolta) per chiedere l’interruzione degli accordi tra UniMi e l’università israeliana Reichman. Di qui l’idea di tenere monitorata la situazione in Statale e di confrontarla con quanto accadeva negli altri atenei della penisola.

Nessun cambio di marcia, le richieste di boicottaggio hanno anzi subito un’impennata, alimentate dall’eco mediatica delle mobilitazioni studentesche diventate globali.

E la comunità accademica è ancora più divisa, soprattutto in merito alle collaborazioni di ricerca scientifica, per il rischio di potenziale dual use delle tecnologie sviluppate, cioè che queste siano sfruttabili sia a scopo civile che militare. Se le università di Torino, Pisa, Bari hanno deciso di non aderire o di sospendere la loro partecipazione al bando Maeci per il 2024, la Sapienza di Roma in un comunicato del 16 aprile ha dichiarato che «Il Senato Accademico e il Consiglio di Amministrazione rifiutano l’idea che il boicottaggio della collaborazione scientifica internazionale, la rinuncia alla libertà della didattica e della ricerca, e la negazione delle associate responsabilità di ogni singolo ricercatore possano favorire la pace e il rispetto della dignità umana».

Ma, al di là del bando Maeci, le mobilitazioni studentesche di tutta Italia chiedono che sia rescisso ogni sorta di accordo tra atenei italiani e israeliani, anche quelli che hanno ad oggetto il semplice scambio tra studenti e docenti. Accordi di mobilità. Mantenere questi scambi, dicono, sarebbe segno di complicità con il governo israeliano. Perché mai chi protesta a sostegno del popolo palestinese non può essere a favore del dialogo fra gli atenei? Certo, le sanzioni colpiscono le istituzioni e non gli individui, ma è difficile pensare a quale altra forma di scambio si potrebbe avere con quei singoli individui al di là degli accordi universitari.

Il proliferare di proteste in tutto il mondo ci ha mostrato quanto possa essere forte e incisiva la voce degli studenti, anche se quelli che si espongono in prima persona sono una minoranza. Perché le tende degli studenti che in Statale hanno occupato il chiostro sono circa un centinaio, a fronte di una comunità di più di 60.000 studenti. E così negli altri atenei. Ma tante minoranze unite sono riuscite a creare un movimento globale di protesta. Perché allora chiedere di boicottare un’intera comunità accademica (quella israeliana), incluse, inevitabilmente, le tante minoranze e idee diverse che vivono al suo interno?

Come riporta il Guardian, migliaia di israeliani nelle scorse settimane si sono uniti in una serie di proteste anti-governative chiedendo, oltre a un accordo per riportare a casa gli ostaggi detenuti a Gaza, elezioni anticipate e le dimissioni immediate di Netanyahu. Nella città settentrionale di Haifa, i manifestanti hanno marciato dietro uno striscione con la scritta: «Possa ogni genitore israeliano ricordarsi di aver messo la vita dei propri figli nelle mani di Netanyahu, che li delude». L’opposizione portata avanti dall’interno esiste, ed è viva.

E quanto più le guerre inaspriscono le comunicazioni, fomentano tensioni e faticano a trovare tregue, tanto più i luoghi accademici dovrebbero ergersi a presidio degli scambi culturali, non “militarizzarli”.

Protestare di fronte alla tragedia umanitaria di Gaza è un dovere. Chiedere un cessate il fuoco, pretendere la condanna dell’operato del governo di Netanyahu è un dovere. Ma è un dovere anche non superare quel confine che ci separa dalla politica, dalla diplomazia e dai suoi strumenti. Ragionare per compartimenti stagni non può essere la soluzione.

Le università italiane intrattengono accordi bilaterali di scambio con paesi in tutto il mondo, compreso l’Iran, che non brilla per il rispetto dei diritti umani. Solo l’Università di Torino ha in vigore 16 accordi con gli atenei iraniani, quasi il doppio di quelli stretti con Israele. Chiederemo la rescissione anche di queste collaborazioni? E poi di quali altre ancora?

Come riporta L’Orient-Le Jour, il movimento di protesta studentesca in solidarietà con i palestinesi, dilagato negli Stati Uniti e nel mondo, ha risollevato il morale a Gaza. Sono «un barlume di speranza». E questa speranza può e deve essere coltivata tenendo ben presente quale sia il confine da non superare: le università sono luoghi di protesta, luoghi in cui si può e si deve far sentire la propria la voce, anche condannando ciò accade al di fuori dei loro confini. Ma dovrebbero rimanere luoghi che non si fanno la guerra tra loro.

Clara Molinari
Studentessa di giurisprudenza, scrivo per dare ascolto ai miei pensieri e farli dialogare con l’esterno. Cinema e lettura sono le mie fonti di emozioni e conoscenza; la curiosità è ciò che lega il tutto.

Commenta