Del: 18 Maggio 2024 Di: Cristina Bianchi Commenti: 0
Speciale Europee. Partiti e programmi in UE

In vista delle prossime elezioni europee, che si terranno in Italia tra l’8 e il 9 giugno 2024, la redazione di Vulcano Statale approfondisce la storia, l’apparato istituzionale e il contesto politico dell’Unione Europea.



Polonia, Ungheria e, fino al 1993, Cecoslovacchia sono i Paesi europei che il 15 febbraio 1991 hanno creato il gruppo Visegrád, noto come V4: un’alleanza semi-ufficiale formatasi all’indomani della dissoluzione dell’URSS e conservatasi dopo l’ingresso dei membri nell’Unione Europea, avvenuto nel 2004. 

Il V4 si propone di promuovere la cooperazione «nel campo della cultura, dell’istruzione, della scienza e dello scambio di informazioni» nonché l’integrazione nell’UE; la presidenza cambia annualmente, a rotazione. La loro alleanza, in realtà, viene fatta risalire all’incontro tra i sovrani Casimiro II di Polonia, Carlo I d’Ungheria e Giovanni I di Boemia, verificatosi nel 1335 nella città ungherese di Visegrád, per trovare un accordo sul piano politico ed economico. 

I rapporti tra i V4 e l’Unione Europea non sono mai stati semplici a causa dei partiti della destra nazionalista, che negli ultimi anni è prevalsa al governo dei 4 Stati.

Tre temi hanno incrinato le già zoppicanti relazioni con l’UE: in primo luogo le politiche in materia ambientale e di inquinamento, dal momento che gruppo è concorde nella volontà di affidare a ciascuno Stato europeo la definizione degli obiettivi di riduzione delle emissioni. I membri del V4 sono infatti fortemente dipendenti dall’uso del carbone. 

Questo primo punto si ricollega al secondo cioè i rapporti con la Russia, da cui dipendono le forniture di gas naturale. Soprattutto Viktor Orban, primo ministro ungherese, nel 2021 ha raggiunto un accordo con Mosca dopo la scadenza del precedente contratto, così come Milos Zeman, presidente della Repubblica Ceca che fino allo scorso anno ha visto con favore la Russia di Putin. Questi rapporti hanno, però, fatto trasparire alcuni attriti con l’odierna Polonia di Donald Tusk, il quale ha una visione più eurocentrica tanto da cercare un coordinamento tra i paesi del gruppo Visegrád e l’Unione Europea. 

Infine, la politica migratoria è l’ultimo punto per cui il gruppo Visegrád non condivide le linee guida dell’Unione Europea, per cui i V4 rifiutano il sistema delle quote di ripartizione, avendo criteri più stringenti per l’accoglimento e non cooperando con le istituzioni europee. 

Ungheria

L’Ungheria è una repubblica parlamentare, il cui presidente è Tamas Sulyok e il primo ministro Viktor Orban, fondatore della Federation of Young Democrats nel 1988, con un’iniziale impronta comunista lontana dall’odierna ultra-conservatrice. Nel 2022 Orban ha ottenuto  il suo quarto mandato consecutivo. 

Il Paese si è reso indipendente dopo il crollo del blocco sovietico e ha deciso di entrare a far parte prima della NATO nel 1999 e poi dell’Unione Europea nel 2004, firmando gli accordi di Schengen.

La politica antimigratoria del premier portò nel 2018 il Parlamento europeo ad usare l’articolo 7 del Trattato sull’Unione Europea, che permette di esercitare azioni preventive o imporre sanzioni qualora ci sia il rischio o la certezza che uno degli Stati membri stiano violando i valori europei: nel caso ungherese, a preoccupare l’Unione erano soprattutto la violazione dei diritti umani, l’erosione delle garanzie democratiche e la diffusa corruzione. 

Determinanti nella politica ungherese di Orban sono i rapporti amichevoli con il Presidente russo Vladimir Putin, i quali hanno incrinato le relazioni con gli altri tre paesi del V4:

questi ultimi hanno infatti accusato l’Ungheria, in particolare durante il conflitto russo-ucraino, di portare avanti esclusivamente i propri interessi. Il premier ungherese ha, inoltre, allentato le relazioni sia con l’Unione Europea che con la NATO, soprattutto su temi come le sanzioni alla Russia, gli aiuti economici a Kyiv e l’adesione degli stati scandinavi al patto atlantico.

Questa visione è data da 3 fattori: il primo è storico, legato alla Transcarpazia, regione ucraina della quale Russia e Ungheria, in caso di sconfitta ucraina, potrebbero ridefinire i confini. Il secondo fattore è strategico poiché Orban ha instaurato una politica di apertura verso la Russia: infatti Rosatom, azienda pubblica russa, vorrebbe costruire su suolo ungherese una centrale nucleare o, ancora, la banca per gli investimenti russa ha trasferito la sua sede a Budapest. Soprattutto, il primo ministro ungherese è riuscito, tramite i rapporti con la Russia e gli accordi sul gas, a ridurre le bollette per i propri cittadini. Infine, l’Ungheria potrebbe essere un mediatore tra Russia e Stati Uniti.

Oltre che per la politica estera, Orban è molto criticato per quella interna e in particolare per il sistema giudiziario e detentivo, non adeguato agli standard europei.

Nel 2012 il primo ministro ungherese riformò il sistema, che portò il Consiglio d’Europa, nel marzo dello stesso anno, a criticare e ammonire la riforma perché poneva il rischio di una deriva antidemocratica. Essa consegnava infatti al leader della Fidesz vasti poteri, tra cui quello di proporre al Presidente la nomina e la revoca dei magistrati o di nominare i presidenti, i vicepresidenti e i capi divisioni dei tribunali e delle corti d’appello.

Negli ultimi anni i sistemi europeo e internazionale hanno aspramente criticato il nuovo sistema giudiziario: nel 2020 Amnesty International fece emergere i duri attacchi da parte di politici e giornali nazionali nei confronti dei giudici non allineati con il governo. Inoltre nel 2023 il governo ha approvato la Legge sulla protezione della sovranità, la quale ha creato una nuova autorità governativa con la funzione di raccogliere informazioni sui gruppi finanziati da agenzie estere o che influenzano il dibattito pubblico.  

Critiche sono arrivate dall’opinione pubblica internazionale anche in relazione al caso dell’attivista antifascista Ilaria Salis, la quale ha partecipato alle udienze incatenata, dopo essere stata arrestata all’inizio del 2023, con l’accusa di lesioni aggravate a danno di manifestanti di estrema destra.

Polonia

La Polonia è una repubblica parlamentare il cui presidente è Andrzej Duda, in carica dal 2015 e il primo ministro Donald Tusk, eletto nel 2023, il quale ha cambiato nettamente la linea politica polacca: sebbene infatti anche durante il precedente governo guidato da Mateusz Morawiecki la Polonia esprimesse già la propria ostilità contro la Russia, per ragioni storiche e di confine, Tusk ha impresso al Paese un orientamento filo-europeo.

Inoltre, Tusk ha riconfermato il sostegno polacco all’Ucraina e al suo Presidente, Volodymyr Zelensky, dopo che nel settembre 2023 Morawiecki aveva deciso di interrompere la fornitura di armi. Proprio il posizionamento in merito all’aggressione russa in Ucraina ha rappresentato un fattore divisivo nel gruppo V4.

La Polonia, che precedentemente faceva parte del patto di Varsavia, come l’Ungheria e la Repubblica Ceca, entrò a far parte della NATO nel 1999 e dell’Unione Europea nel 2004.

In realtà l’aiuto della Polonia all’Ucraina ha vacillato a causa delle importazioni di grano proveniente da quest’ultimo paese, questione che ha portato centinaia di manifestanti ad impedire il transito di prodotti che provocherebbero una concorrenza sleale nel commercio interno. Tensioni che hanno portato il primo ministro ucraino Denys Shmyhal e l’omologo polacco a cercare un accordo che andrebbe a limitare alcune importazioni ucraine, senza, però, specificare di quali prodotti si parla. Quindi, Tusk ha il difficile compito di trovare un equilibrio tra il supporto estero e gli interessi agricoli interni della Polonia, ma anche quello di far cessare i blocchi sul confine ucraino per non danneggiare ulteriormente l’economia polacca, ucraina e europea. 

Il cambio del primo ministro ha portato un miglioramento nei rapporti con l’Unione Europea: a inizio maggio la Commissione Europea ha deciso di chiudere la procedura, avviata nel 2018 contro Polonia, sempre sulla base dell’articolo 7 del TUE. L’istituzione europea ha infatti posto in essere una valutazione approfondita, che ha evidenziato una riduzione del rischio di violazione dello stato di diritto da parte del governo polacco.

Cechia e Slovacchia

Tanto era stata rilevante la Cecoslovacchia nel secondo Novecento, col socialismo dal volto umano di Dubček, la Primavera di Praga e Jan Palach (d’importanza politico-simbolica almeno pari ai fatti di Budapest nel 1956), tanto oggi Cechia e Slovacchia appaiono nel cono d’ombra mediatico di Polonia e Ungheria, all’interno del gruppo Visegrád.

Fuoriuscite dal regime comunista con la Rivoluzione di Velluto di fine 1989, le leadership ceca e slovacca decisero consensualmente di dividersi in due nazioni nel 1992 (dopo la cosiddetta Guerra del Trattino): il partito artefice della scissione dal lato di Bratislava, il nazionalista HZDS, conquistò sia la Presidenza della Repubblica che il governo.

L’indipendenza della Slovacchia dalla passata dittatura sovietica non ha tuttavia significato immediata stabilità democratica: lo stile di governo del nuovo premier Mečiar, denominato appunto Mečiarizmus, è stato considerato semi-autoritario, ad esempio nei confronti della minoranza ungherese. Nel frattempo, diveniva primo presidente ceco il poeta ed ex-dissidente Havel, che condusse all’ingresso nella NATO (1999) proprio nel pieno dei bombardamenti in Jugoslavia, generando alcune critiche, sebbene la Cechia sia poi entrata anche nell’UE (2003).

Nel 1998, invece, il governo slovacco è passato al cristiano-democratico Dzurinda: se l’HZDS si classifica come euroscettico, i due governi di Dzurinda hanno portato all’ingresso della Slovacchia prima nell’OCSE e poi nella NATO e nell’UE (2004).
All’opposizione, insieme all’HZDS, venne a trovarsi un nuovo partito, economicamente di sinistra, nazionalista e conservatore nei confronti delle minoranze etniche o della comunità LGBT+: Smer, di Robert Fico.

Fico ha iniziato a governare nel 2006, insieme anche all’SNS ultranazionalista filorusso:

già al tempo dell’annessione russa della Crimea nel 2014, d’altronde, Fico espresse contrarietà alle sanzioni contro Mosca, pur disconoscendo il referendum farsa. Anche sulla guerra russo-georgiana si disse sostenitore di posizioni più sfumate.

Per il resto, Fico si è allineato alle posizioni del gruppo Visegrád contro il ricollocamento delle persone migranti e contro un’eccessiva allocazione di fondi del Recovery Fund ai cosiddetti PIGS, i Paesi meridionali dell’UE. Nel 2018, però, lo scandalo seguito all’omicidio del giornalista investigativo Kuciak (coinvolto in un’indagine sulla ‘ndrangheta in Slovacchia) ha portato alle dimissioni di Fico.

Gli è succeduto l’ex-vice Pellegrini, che di lì a poco ha creato il partito socialdemocratico e ufficialmente europeista Hlas; nel 2020, l’arrivo del centrodestra al potere ha fatto parlare di «fine del dominio di Smer», forse impropriamente. Nel 2023 si è infatti giunti a un governo tecnico e, infine, le elezioni sono state vinte proprio da Fico, sull’onda di una campagna contraria agli aiuti a Kyiv. Non a caso, ad aprile il segretario di un piccolo partito di destra slovacco ha rilasciato una colomba nell’Europarlamento, con riferimento al conflitto in Ucraina.

Non solo:

nel 2024 alla Presidente della Repubblica Čaputová, progressista liberale, è succeduto proprio Pellegrini, considerato ormai un alleato del governo Fico (che include nuovamente l’SNS). Nel frattempo infatti la maggioranza ha emendato il Codice Penale, abolendo la Procura Speciale anti-corruzione e diminuendo le pene, oltre che restringendo la finestra temporale per la denuncia degli stupri: se i difensori della riforma la inquadrano negli standard garantisti europei, è proprio l’UE ad averla condannata.

Fico ha anche smesso di interagire con quei giornalisti che definisce «media nemici» e «sgraditi»; inoltre, nonostante una lettera aperta firmata fra gli altri da Reporter Senza Frontiere, il governo ha approvato la dissoluzione della rete televisiva pubblica RTVS e la sua sostituzione con un’altra, che dovrà trasmettere quotidianamente l’inno nazionale.

Questa settimana, Fico è stato colpito da un attentato a Handlová.

In Cechia, dopo circa 25 anni di alternanza al governo fra i Socialdemocratici e gli ODS conservatori (e due Presidenti ex-premier: Klaus e Zeman), nel 2017 è salito all’esecutivo Babiš:

imprenditore, ex-ministro, secondo uomo più ricco del Paese e leader del partito populista Azione dei Cittadini Insoddisfatti. Anche Babiš si è allineato alla politica anti-migratoria di Visegrád (accusando Merkel di aver indirettamente causato gli attentati di Berlino nel 2016), oltre che agli attriti sul Recovery Fund.

Nel 2017 alcune polemiche di sfondo fiscale hanno causato la sua caduta, riportando al governo il centrodestra con l’ex-rettore Fiala: fortemente filo-israeliano, il nuovo premier ha avversato la Russia in modo netto, spingendo per le sanzioni, per l’ingresso di Kyiv nell’UE e nella NATO. La Cechia ha anche accolto il maggior numero di rifugiati ucraini pro capite, e continua ad attaccare la disinformazione Russa in occasione delle elezioni europee.

Nel 2023, è stato eletto Presidente (battendo Babiš) l’ex-generale Pavel, europeista con un passato anti-russo e anti-cinese nella NATO; nei primissimi giorni del suo mandato, ha preso contatti con Taiwan ed è stato il primo capo di Stato straniero a visitare l’Ucraina Orientale dall’inizio del conflitto.

Tra Europa e Russia. Gli Stati candidati all’ingresso in UE

Se i membri del gruppo Visegrad, segnati da un percorso storico complesso e dal lungo assoggettamento all’URSS, hanno ormai da vent’anni fatto il loro ingresso a pieno titolo nell’Unione Europea, molti altri sono gli Stati collocati nell’Europa centro-orientale e balcanica che sono attualmente candidati o candidati potenziali all’adesione, regolata dagli articoli 2 e 49 del Trattato sull’Unione Europea (TUE). 

Ad oggi, i Paesi candidati sono Albania, Bosnia-Erzegovina, Georgia, Moldavia, Montenegro, Macedonia del Nord, Serbia, Turchia e Ucraina; il Kosovo è un candidato potenziale. 

Molti di questi Stati si trovano tuttavia dilaniati da tensioni e conflitti sia interni sia internazionali, che potrebbero mettere a rischio l’allargamento dell’Unione e danneggiare gravemente la tenuta delle loro democrazie.

Ad avere un grave impatto sono, ovviamente, l’onda lunga dell’invasione russa in Ucraina, che da ormai due anni continua a mietere decine di migliaia di vittime e a minacciare la sopravvivenza di uno Stato ucraino indipendente e sovrano, e l’influenza destabilizzante della stessa Russia di Putin

Georgia

Ex repubblica sovietica divenuta indipendente nel 1991, nel 2008 la Georgia ha subito un’invasione da parte della Russia di Putin, la prima avviata da Mosca nei territori precedentemente controllati dall’URSS. L’attacco seguì un modello simile a quello condotto in Ucraina: fu giustificato con il pretesto di supportare l’autoproclamata repubblica dell’Ossezia del Sud, formatasi già all’indomani dell’indipendenza insieme all’altra autoproclamata repubblica dell’Abcasia. 

Gli scontri deflagrarono anche a causa della decisione dell’allora Presidente Mikheil Saakashvili, eletto nel 2004, di tentare di riannettere i due territori. La guerra del 2008 si concluse rapidamente – sebbene con un centinaio di morti e svariati feriti – grazie ad un compromesso mediato dai Paesi occidentali: ancora oggi la Russia mantiene le proprie truppe nelle repubbliche separatiste dell’Ossezia e dell’Abcasia.

Da pochi giorni inoltre la Georgia è nuovamente attraversata proteste fortemente partecipate:

già l’anno scorso la popolazione si era opposta all’approvazione della cosiddetta legge “sugli agenti stranieri”, o “legge russa”, riuscendo di fatto a rimandare, seppur brevemente, ciò che il 14 maggio si è compiuto. 

Lo scorso martedì infatti il Parlamento della Georgia, dove il partito populista e filo-russo Sogno Georgiano detiene la maggioranza, ha definitivamente approvato l’adozione di tale legge, che potrebbe tra l’altro rappresentare un ostacolo all’ingresso del Paese nell’UE. 

La previsione si rifà ad alcuni emendamenti approvati in Russia nel 2012 e incrementati negli anni successivi, volti a reprimere ONG, media e organizzazioni di vario genere, con l’accusa di essere “agenti stranieri”: da ora in avanti in Georgia sarà considerato tale qualunque ente che riceva almeno il 20% dei propri finanziamenti dall’estero.

Se volete saperne di più, vi suggeriamo l’ascolto delle ultime puntate del podcast Stories, di Cecilia Sala. 

Moldavia e Transnistria

Anche in Moldavia, come in Georgia e Ucraina, c’è un territorio presidiato dalle truppe russe, collocato nella parte orientale del Paese al confine con l’Ucraina: si tratta della Transnistria, anch’essa autoproclamata repubblica indipendente e filorussa fin dalla dissoluzione dell’URSS e dall’ottenimento dell’indipendenza da parte della Moldavia. Nel 1992 presero avvio i primi scontri tra le forze separatiste, appoggiate dalle truppe russe, e le forze moldave, conclusisi con un cessate il fuoco quello stesso anno e circa un migliaio di vittime.

La Transnistria, che ha un proprio governo autonomo, conserva oggi rapporti privilegiati con Mosca, che le assicurano notevoli vantaggi, in primis economici ed energetici oltre che militari. I media russi filogovernativi trasmettono anche sul suo territorio.

Con le elezioni del 2020, la politica Maia Sandu, del Partito di Azione e Solidarietà, è divenuta Presidente della Moldavia, imprimendo al Paese un orientamento nettamente filo-europeo.

Nei primi mesi del 2023 si sono verificate nel Paese imponenti manifestazioni antigovernative, animate dal partito populista e filorusso Shor, facendo leva sui sentimenti di parte della popolazione. La Moldavia si trovava infatti in difficoltà economica, anche per via degli effetti dell’invasione russa dell’Ucraina.

Nel maggio 2023, una parte altrettanto consistente della cittadinanza moldava rispose con una sentita manifestazione pacifica nella capitale Chișinău, per esprimere il proprio consenso all’integrazione del Paese nell’UE.

Lo scorso marzo, la Presidente Sandu ha annunciato la stipula di un accordo bilaterale con la Francia di Emmanuel Macron, che prevede la fornitura da parte francese di armi e addestramento, oltre che l’avvio di vari progetti comuni, con l’obiettivo di difendere il Paese dall’ormai esplicita aggressività di Putin.

Macedonia del Nord e Balcani

Gli Stati dell’area balcanica, fuoriusciti dall’ex Jugoslavia dopo la dissoluzione verificatasi nei primi anni ’90, sono storicamente al centro di gravi tensioni – tanto da essere all’origine del termine «balcanizzazione» – e tutt’oggi rappresentano un nodo particolarmente sensibile. 

La violenta guerra che devastò la Bosnia Erzegovina tra 1992 e 1995, segnata dal noto genocidio di Srebrenica compiuto dalle forze di etnia serba contro i civili musulmani, e il conflitto che in Kosovo culminò con l’intervento della NATO nel 1999 e con la contestata dichiarazione d’indipendenza del Paese nel 2008, continuano a segnare le dinamiche regionali. La Serbia in particolare non ha mai riconosciuto l’indipendenza kosovara: rivendica infatti il suo territorio quale proprio nucleo storico originario, facendo leva sul celebre episodio della battaglia di Kosovo Polje (1389).

A partire dal 2023 si sono verificati nuovi contenziosi tra Kosovo e Serbia.

Quest’ultima conserva inoltre rapporti amichevoli con la Russia, in continuità con il tradizionale legame intrattenuto con l’impero russo. L’attuale Presidente serbo Aleksandar Vucic si è mantenuto in una posizione ambigua, aderendo alla risoluzione ONU che ha condannato l’invasione russa dell’Ucraina e non riconoscendo le annessioni unilaterali decise da Mosca ma, allo stesso tempo, evitando di varare sanzioni contro l’alleato. 

Per quanto riguarda la Macedonia del Nord, lo scorso 8 maggio si sono tenute le elezioni parlamentari e presidenziali, che hanno portato alla vittoria la coalizione nazionalista di destra dell’Organizzazione rivoluzionaria interna macedone – Partito democratico per l’unità nazionale macedone (Vmro-Dpmne).

A gettare benzina sul fuoco, la neo-eletta presidente Gordana Siljanovska Davkova, che lo scorso 13 maggio, in occasione del proprio giuramento, ha fatto riferimento al Paese come «Macedonia», anziché come Macedonia del Nord, riaprendo il contenzioso in corso ormai da decenni con la Grecia

Anche in occasione delle presidenziali del 2019, Siljanovska Davkova – allora già in corsa per la carica di Presidente, poi ottenuta dal filo-europeo Stevo Pendarovskiincentrò la propria campagna elettorale sulla volontà di cambiare nome al Paese, rompendo l’accordo di Prespa stipulato con la Grecia nel 2018. 

Proprio tale accordo aveva di fatto consentito alla Macedonia del Nord di divenire Stato membro della NATO nel 2020 e di avviare le procedure di accesso all’UE:

la Grecia infatti aveva fino a quel momento opposto il proprio veto all’ingresso macedone nelle due organizzazioni, sostenendo che l’uso del solo nome “Macedonia” rappresentasse un furto storico e culturale nei confronti dell’omonima regione greca. 

La presa del potere da parte di Vmro-Dpmne potrebbe dunque mettere a rischio la candidatura macedone per l’ingresso in UE, danneggiando i rapporti con la Grecia ma anche con la Bulgaria, a propria volta già Stato membro dell’UE. La Bulgaria avanza infatti alcune richieste in cambio del proprio consenso all’ingresso della Macedonia in UE: tra le altre, una modifica della Costituzione macedone, affinché quest’ultima riconosca la minoranza bulgara quale «popolazione costituente», sebbene la Bulgaria non riconosca la minoranza macedone nel proprio territorio e neghi l’esistenza di un’autonoma lingua macedone. 

Ucraina

Non è necessario in questa sede ripercorrere nei dettagli l’invasione del territorio ucraino, avviata dalla Russia il 24 febbraio 2022 sotto la pretestuosa definizione di “operazione speciale” (per approfondire, rimandiamo alle nostre precedenti pubblicazioni). 

Basti osservare che, a fronte di un’occupazione iniziata in Crimea nel 2014, nella quasi indifferenza della comunità internazionale, a fronte di due sanguinosi anni di guerra, che avrebbero causato, durante il solo assedio della città di Mariupol, l’uccisione di almeno 22 mila persone, e della tragedia taciuta di migliaia di minori ucraini strappati alle proprie famiglie e deportati in territorio russo, appare quantomeno superficiale chi continui a fare riferimento alle presunte velleità di allargamento dell’Unione Europea (e della NATO), trascurando il diritto dell’Ucraina – o meglio, dei cittadini ucraini – di decidere autonomamente del proprio futuro.

Diritto reclamato già nel novembre del 2013, quando presero avvio le proteste denominate Euromaidan, nel centro della capitale Kyiv, contro l’orientamento autoritario e filorusso dell’allora Presidente Viktor Yanukovich, che aveva deciso di ritirarsi dalla firma di un accordo commerciale con l’Unione Europea. 

Il 20 febbraio 2014, almeno 50 persone che stavano prendendo parte alle proteste furono uccise durante la repressione voluta da Yanukovich, che decise infine di riparare in Russia. Quello stesso giorno, le truppe russe attraversarono il confine e fecero il loro ingresso in Crimea. 

Oggi, a dieci anni di distanza e dopo la richiesta ufficiale di adesione all’UE, presentata dal governo ucraino il 28 febbraio 2022, dovremmo liberarci di un mindset ancora fortemente coloniale, che ci spinge a considerare l’Ucraina come una “piccola potenza” che dovrebbe accettare passivamente le decisioni delle “grandi potenze”, prima tra tutte l’imposizione di una cosiddetta “neutralizzazione”. 

Cristina Bianchi
Giurista pentita che si è convertita a scienze politiche. Mi interessa molto trovare una connessione tra attualità e cinema, che permetta alle menti creative di viaggiare attraverso le epoche e sviluppare un pensiero critico.
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Laureata in Storia, sto proseguendo i miei studi in Scienze Politiche, perché amo trovare nel passato le radici di oggi. Mi appassionano la politica e l’attualità, la buona letteratura e ogni storia che valga la pena di essere raccontata. Scrivere per professione è il mio sogno nel cassetto.

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