Del: 31 Luglio 2024 Di: Emanuele Rossi Ragno Commenti: 0
Artisti in anonimato, i molti modi di non avere un volto

State passeggiando per i padiglioni di Napoli Comicon 2024, tra stand di case editrici e firmacopie, incerti se elemosinare una foto a ogni cosplayer che riconoscete o se dilapidare i vostri risparmi in novità a fumetti, gadget e action figure, pur di non pensare alla dedica di John Romita Jr. che tanto agognavate, ma per la quale non vi siete accodati in tempo. In piena sketch session, davanti a una pila di volumi di Alterlinus, qualcuno attira la vostra attenzione. Camicia, farfallino, guanti di raso e doppiopetto di un bianco lattiginoso, malcelata pancetta e testa occultata da un casco circolare, cromaticamente in tono con il completo, con due protuberanze laterali a mo’ di orecchiette e una chiazza nera a descrivere un ampio sorriso.

L’ospite mascherato, che risponde al nomignolo di Wamu, non è un autore di grido, un decano del fumetto o un esordiente talentuoso che possa giustificare qualche interesse da parte del pubblico. Anzi, se gli avventori vogliono sapere di più sul suo conto, possono consultare solamente la sua scheda sul portale di Comicon, dove si legge che ha 33 anni ed è «un verme venuto dallo spazio» che «quando morirà donerà il suo corpo all’Istituto etiope di musicologia, così che possa essere utilizzato per fabbricare fenomenali strumenti esoterici». Dopo un’ulteriore ricerca sui social apprenderete che Wamu vanta un solo fumetto breve, pubblicato nell’antologia collettiva che ha davanti a sé in bella mostra e che cerca di vendere sfruttando la propria immagine anticonvenzionale.

Dall’altra parte del banco, prima ancora che un fumettista, un autore (o un’autrice), vi si sta offrendo un’attrazione. Sarebbe del tutto fuori luogo fantasticare sulla sua vera natura, perché non c’è nulla di concreto che risvegli in voi il desiderio di lacerare quella bianca superficie per scoprire quale sostanza nasconde in profondità. Il personaggio di Wamu non intrattiene rapporti di alcun tipo con un referente nel mondo reale (non sapete ancora nulla della sua produzione artistica), e nemmeno in quello virtuale (niente siti o profili social). Non vi trovate di fronte a un figurante di Topolino a Disneyland: chiedersi chi si cela dietro quella testa da alieno dovrebbe venire spontaneo.

Ma tutto è costruito affinché l’incantesimo di una situazione così lontana dall’esperienza comune non debba essere spezzato, altrimenti sarebbe fin troppo semplice accorgersi che è proprio la maschera il vero “prodotto”, e non la merce esposta come suggerirebbe il buon senso.

Wamu è insomma un artista che non si è limitato a costruire una figura pubblica occultando i propri connotati, ma che ha anteposto questa fase alla comunicazione della propria arte, rendendola quasi accessoria. Non ci troviamo di fronte a una celebrità che “cela l’artista per svelare l’opera”, come direbbe Oscar Wilde, ma che fa del proprio celare un’opera pratica, del valore immediatamente spendibile, di intrattenimento. E tutto questo utilizzando una semplice maschera.

Naturalmente le ragioni per cui un personaggio noto, o aspirante tale, può voler mantenere l’anonimato sono variegate e complesse. Rimanendo nel mondo del fumetto, valga per tutti il caso di Paru Itagaki (creatrice del manga Beastars, un successo da oltre un milione di copie vendute), che non ha mai esitato a firmarsi con il proprio nome e cognome, ma allo stesso tempo ha fatto di tutto per prenderne le distanze. L’essere figlia di Keisuke Itagaki (uno dei più rispettati e influenti mangaka ancora in attività) e l’aver esordito giovanissima sulla stessa rivista del padre hanno sollevato varie accuse di nepotismo, ben prima che Beastars raggiungesse fama e consensi critici. Paru ha voluto rispondere a tono, costruendo l’immagine di un’outsider e presentandosi in pubblico con il capo coperto da un’enorme maschera da pollo, anche per ribadire la vicinanza con i protagonisti del suo fumetto, popolato da animali antropomorfi in una realtà distopica fondata sull’homo homini lupus di Hobbes (e Zootropolis), non molto distante dagli scenari di combattimento dei battle shonen di papà Keisuke.

Se si può essere gelosi della propria privacy anche quando ci si dedica a un’attività sedentaria come scrivere e disegnare fumetti, figuriamoci la sete di anonimato che nutrono uomini e donne da palcoscenico come cantanti, personaggi televisivi o performer. Per molti di loro l’equilibrio tra i piaceri della celebrità e i disagi della sovraesposizione mediatica è un compromesso difficile da accettare.

I Daft Punk hanno sempre avuto un bel ricamare sull’origine dei loro caschi metallizzati. La leggenda vuole che alle ore 9:09 del 9 settembre 1999, nello studio di registrazione di Thomas Bangalter e Guy-Manuel de Homem-Christo, un virus informatico abbia trasformato i campionatori e dj parigini in due robot dall’intelligenza superiore.

Come ogni mito fondativo che si rispetti, anche questo racconto comunica meglio di qualunque manifesto le motivazioni artistiche a sostegno del progetto: la ricerca di un sound design postumano che trascenda la storia della musica, e che diventi ballabile alla portata di tutti. E per chi sa leggere tra le righe è sicuramente più affascinante di un sermone sull’importanza dell’anonimato nella società dello spettacolo, dove il proverbiale quarto d’ora di notorietà può dare alla testa a chiunque. Ma naturalmente c’entrava anche questo, la volontà dei due musicisti di non farsi riconoscere nella vita quotidiana, quando erano semplicemente Thomas e Guy-Man.

Da quel 9 settembre 1999, l’industria discografica è cambiata per sempre, perlomeno nei suoi costumi. Caschi, maschere, look più o meno appariscenti per adulterare le proprie fattezze sono entrati a far parte dell’outfit mediatico di un numero sempre più nutrito di artisti. La popstar Sia Furler, ad esempio, che fino al 2014 ha sempre nascosto il volto sul palco e nei videoclip, prima con buste di plastica, poi con una parrucca biondo platino a caschetto lunga fin sotto il naso. Oppure il dj Marshmello, che deve il proprio nome al casco bianco cilindrico a forma di dolcetto zuccheroso con occhi e bocca stampati sopra in un languido sorriso acchiappa-audience.

Per entrambi gli artisti, i bagni di folla ai concerti e l’invadenza della copertura giornalistica non sono mai stati un compromesso accettabile di fronte ai benefit del successo. D’altro canto, seguire uno stile di vita anti-spettacolare è stato il primo passo per stringere un rapporto schietto e genuino con il loro pubblico – ed è un paradosso che ci siano riusciti occultando la loro identità. Logicamente, entrambi hanno iniziato a mostrarsi quando la fama era consolidata e quasi agli sgoccioli. «Sentivo che Chandelier era una grande canzone pop», dichiarò Sia a proposito del videoclip in cui rivelò al mondo la propria faccia, «ma non eravamo sicuri di cosa sarebbe successo se non fossi stata disposta a mostrarmi, a fare promozione e ad andare in tournée e a continuare con la nostra strategia tradizionale. Quindi non avevo aspettative. Per questo ho potuto correre un grande rischio, il rischio di fallire come artista solista, perché stavo già guadagnando bene scrivendo canzoni per altre popstar.»

A non aver mai sentito il bisogno di uscire allo scoperto sono invece i Residents, tra i progetti musicali più radicali e ineffabili della storia del rock. Californiani, nati nei primi anni Settanta e tuttora in attività, hanno sempre suonato in pubblico indossando cilindro, frac e una maschera grottesca (quella che li ha resi celebri è un gigantesco bulbo oculare), senza che trapelassero indizi sulle loro reali identità. La biografia della band prescinde così da quella di ciascun componente ignoto. È anche possibile che sotto quei costumi da vaudeville degli orrori si siano alternati musicisti diversi nel corso dei decenni, portando alle estreme conseguenze una filosofia anti-divistica che non prevede soltanto di “celare l’artista per svelare l’opera”, ma anche di fare del proprio corpo un significante astratto, una marionetta senza fili che ironizza sulla perdita di materialità e pervasività della musica rock nell’epoca della massificazione dei consumi e dell’industria discografica.

Non tutti i “cantanti senza volto” hanno costruito le fondamenta della propria immagine sul mistero della loro assenza perpetua.

Gli stessi Daft Punk cominciarono a esibirsi normalmente negli anni Novanta, per poi adottare maschere occasionali e solo in un secondo momento elmetti robotici ad hoc. Di conseguenza Internet straripa di fotografie di Thomas e Guy-Man nel pieno della loro giovinezza, tra un dj set e l’altro, suggerendo anche visivamente la netta cesura tra i primi lavori e la svolta robotica.

Lo stesso si può dire degli Slipknot, gruppo statunitense heavy metal attivo dal 1995, che ai concerti indossa divise numerate e maschere da clown sfigurate, riprendendo un afflato di satira sociale à la Residents al mercificante sistema discografico contemporaneo. In tutte le altre circostanze, invece, i musicisti coinvolti nel progetto, una ventina in tutto, non si sono mai fatti problemi a mostrarsi in borghese. Riguardo all’uso delle maschere, la voce solista del gruppo Corey Taylor ebbe a dire che «è il nostro modo di diventare più intimi con la musica. È un modo per diventare inconsapevoli di chi siamo e di cosa facciamo al di fuori della musica. […] in un certo senso è quasi come indossare la musica».

«Quando si indossa una maschera ci si sente più liberi e protetti, e quindi si tende a svelare molto di più della propria personalità», dichiarò sulla stessa falsariga Myss Keta nel 2018. Il suo camuffamento minimale, occhiali da sole e mascherina, le consente di nascondere la sua identità anche dietro le quinte con i colleghi e i produttori, irrobustendo l’idea di una celebrità che si è fatta da sola senza scorciatoie. Cavalca l’anonimato per poter dire di tutto, per poter “essere tutti”, ma si rivolge chiaramente a un’élite culturale. La sua poetica è iconoclasta, la sua immagine rimanda a un tempo e a un luogo ben precisi: luci e ombre della “Milano da bere” degli anni Ottanta, un passato a cui è lecito guardare con nostalgia.

Quando non si ha una biografia pubblica con cui fare i conti, ogni descrizione, dichiarazione d’intenti o autodefinizione è una menzogna a fin di bene, ogni dettaglio “intimo” è potenziale autofiction. Il docufilm animato Il segreto di Liberato, uscito lo scorso maggio, non ha aggiunto quasi nulla a ciò che si sapeva del cantautore napoletano, ma ha spinto molti appassionati a fare qualche ricerca. Molti si sono interrogati sulla figura di una ex fidanzata di Liberato, Lucia Palladino, compagna di classe con la passione dei manga. Morbosamente, su Google le parole “lucia palladino”, associate a “manga” e “tokyo”, sono diventate tra le più ricercate del periodo, e diversi utenti sembravano perfino aver individuato la giovane nel profilo di Mirka Andolfo, fumettista napoletana molto nota in Giappone e negli Stati Uniti per il suo tratto orientaleggiante.

Voler smascherare a tutti i costi le star che hanno scelto di rimanere nell’ombra è il lato oscuro di questo fenomeno. Anche quando la loro retorica è anti-divistica e anti-sistema, i rimandi impliciti alla vita privata, a ciò che non è visibile o rintracciabile, generano spesso curiosità e feticismo perverso in una certa fetta di fandom.

E se lo scopo è restituire valore all’arte ridimensionando l’artista, il risultato può essere uno scialbo “personaggismo di ritorno”, tipico di illustri sconosciuti sul viale del tramonto che tentano di risollevarsi stuzzicando lo zoccolo duro dell’audience, tramite indizi sulla loro reale identità o veri e propri face reveal. Si è già parlato rapidamente del “coming out” di Sia, ma sono soprattutto i content creator online a riprodurre questa dinamica. Una risposta ironica è arrivata da YouTuber con oltre 10 milioni di iscritti come Beluga e HowToBasic, che hanno dissacrato il concetto di face reveal nei loro video dedicati. Non è un caso che si tratti di alcuni dei più visualizzati dei rispettivi canali, a riconferma di quanto sia importante per alcuni fan riconoscere anche nei volti dei loro beniamini un’immagine affine al loro modo di essere. O ritrovarci semplicemente un difetto, come un brufolo sul naso o una mandibola un po’ sporgente.

Anonimato come forma di difesa, anonimato come elemento spettacolare, anonimato per libertà di critica… ma esiste anche l’anonimato per necessità. Basta fare un giro nei cataloghi di arte contemporanea per rendersi conto che della vita degli street artist più famosi si conosce davvero poco o nulla. Banksy, Felipe Cardeña, Invader, Escif, Dede, gli italiani Jorit e Blu. Se vogliono continuare a pitturare muri e strade anche dove ciò non è permesso, molto banalmente, non devono farsi beccare. La loro vita si dipana tra segretezza, soldi, fama, illegalità e presunti disvelamenti d’identità (“Smascherato Banksy!”, titolava il Daily Mail nel 2008), seguiti da altrettanto ricorrenti smentite.

Un caso tutto particolare è poi quello degli pseudonimi, maschere nominali dietro cui si cela un pezzo di verità che non ha più a che fare con la genetica, ma con l’identità civile della persona-artista. Impossibile non menzionare Elena Ferrante, un nome e un cognome del tutto privi di rilevanza, perché privi di un corpo, ma che proprio per questo occultano i riferimenti all’ego della vera autrice (o del vero autore) molto più eloquentemente di un banale nomignolo. Elena è anche il nome della protagonista e voce narrante de L’amica geniale, che in quest’ottica si configura come l’autobiografia di una donna fantasma, una mastodontica opera di occultamento che, non a caso, parla del rapporto con una ragazza che personifica l’altro da sé, inafferrabile.

Con oltre trent’anni di carriera alle spalle e più di dieci milioni di copie vendute in tutto il mondo, è significativo che Ferrante non abbia mai ceduto alle lusinghe di un surplus di notorietà che potrebbe portarle in questo momento un “face reveal”. Lo stesso non si può dire di un’altra scrittrice italiana di successo, Erin Doom, che dopo essere rimasta nell’anonimato per più di tre anni ha rivelato la propria identità nel maggio 2023, in una puntata del talk show in prima serata Che tempo che fa.

Due modelli d’immagine, dunque (quello di Ferrante e quello di Doom), che pur antitetici nella loro coerenza, ribadiscono un assunto fondamentale dell’anonimato nel mondo delle celebrità: chi vuole diventare o rimanere uno sconosciuto illustre deve produrre opere che si facciano conoscere e parlino prima di tutto per lui o per lei.

Commenta