I social networke le comunità di Internet sono ormai oggi oggetto di diverse critiche, che vanno da un loro ribaltamento in senso individualista alla gogna pubblica. È in particolare invalso l’uso (giustificato dall’uso esteriore del contenuto d’intrattenimento, se non propriamente meme) della violazione anche collettiva della privacy altrui: si spazia dal cringe content al vigilantismo, passando per la geolocalizzazione non consensuale.
Senza inquadrare il fenomeno in binarismi pregiudiziali (si può argomentare un uso socialmente benefico di certe abilità, si veda il recente caso in cui Yassin En Naimi ha ubicato i responsabili di un crudele video ai danni di un gatto), Vulcano Statale ha deciso di intervistare Francesco Marino, giornalista per Italian.Tech e Today.it, digital strategist e autore di Scelti per te (2021).
1. Ciao Francesco, innanzitutto grazie di
averci concesso questa intervista.
Come hai dato avvio al tuo progetto Pillole di Futuro
Presente nel 2021?
Grazie a voi per avermi coinvolto. Il progetto è nato da un’esigenza: da qualche tempo, studiavo il digitale, i social network e gli effetti che queste enormi innovazioni tecnologiche stavano avendo su individui e comunità. Leggevo, approfondivo, ma non avevo un vero spazio dove raccontare di questi temi. Ho pensato allora di poter costruire qualcosa su Instagram, che con la pandemia aveva un po’ ampliato la sua offerta in direzione dell’informazione. Era anche un modo, ma era più un augurio, per promuovere un mio al tempo eventuale primo libro, a cui stavo lavorando e che poi è uscito come Scelti per te.
2. Recentemente hai portato all’attenzione sulla tua piattaforma il caso di un supposto adulterio ripreso e condiviso di nascosto sui social, portando all’identificazione pubblica dei protagonisti da parte di quello che definisci un sistema di sorveglianza collettiva – in altre parole, l’insieme degli utenti che hanno interagito con il video.
Ritieni che il senso di community legato ai social network sia un incentivo a questo tipo di vigilantismo, di cui abbiamo parlato su Vulcano Statale e che anche tu sembri ricondurre alla gogna mediatica?
Il punto è capire cosa si intende per senso di community. La questione chiave di questo sistema di sorveglianza collettivo è che è mosso da incentivi individuali: da un lato, l’intrattenimento; dall’altro, l’esigenza di costruirsi un’identità sui social network. In questo senso, le piattaforme sono sicuramente un incentivo, proprio in termini di funzionalità tecniche: per design, premiano i contenuti che portano engagement, che catturano l’attenzione delle persone e che spingono alla partecipazione. E cosa c’è di più accattivante di una specie di investigazione digitale alla ricerca di un colpevole?
3. Questo è solo uno dei casi in cui la cosiddetta OSINT (Open Source Intelligence, investigazione basata su dati pubblicamente disponibili, ad esempio la geolocalizzazione) prende un crinale pericoloso. Tuttavia molti creator in questo campo come Tom Davies, Trevor Rainbolt e in Italia Yassin En Naimi applicano tali capacità a un uso sociale, ad esempio localizzando la fotografia del parente passato a miglior vita di un seguace.
L’OSINT è in sé neutra o intrinsecamente una violazione della privacy? È possibile un suo uso deontologico, come quello applicato solo ad adulti consenzienti da parte di Kahn Jr.?
Certo che sì. Alla base c’è il consenso, come dici tu. O anche l’interesse pubblico, come per esempio nel caso del giornalismo. Il problema è portare all’attenzione della collettività persone, luoghi, contesti che non hanno scelto di diventare pubblici o che, dall’altro lato, non rappresentano elementi di particolare interesse pubblico per nessuno.
4. Dal video privato dei dipendenti di una banca nel 2017 alla ripresa non consensuale di un benzinaio quest’anno, la violazione della privacy (anche tramite geolocalizzazione, nel secondo caso) sembra qui essere stata giustificata dal carattere “memetico” dei protagonisti in questione, quasi non fossero persone reali.
Sulla tua piattaforma, hai parlato più volte di spazio fisico e intera realtà ridotti a content opportunity: è immaginabile che la virtualità delle interazioni mediate dallo schermo contribuisca a de-umanizzare le vittime di gogna mediatica?
Ti rispondo con un citazione che uso spesso, quando si parla di questo tema. È una frase da un romanzo di Walter Siti che si chiama Il Contagio, che parla di società dello spettacolo e di televisione, ma che mi pare molto utile anche fuori da quel contesto specifico. «Se percepiamo il mondo come un prodotto artistico allora valgono per il mondo le regole che valgono per le opere d’arte, cioè l’indifferenza morale e la sospensione dell’incredulità. Tra una realtà concreta ma deprimente e una rappresentazione seducente ma immaginaria, scegliamo la seconda».
5. Questa de-umanizzazione sembra potersi rintracciare anche nelle pagine dedicate al cringe content, spesso sfociate nel bullismo ai danni di persone talora identificate come autistiche, come abbiamo descritto su Vulcano Statale. Il fatto che molti dei protagonisti siano in realtà satirici e parodici corrobora l’idea che un meccanismo di attrazione e repulsione, nonché un senso di superiorità, siano insiti nella cringe comedy.
Credi che questo fenomeno possa spiegarsi con la definizione di cringe come coping strategy che proponi tu?
Sì, per me cringiarsi è una strategia per affrontare una realtà in cui ciascuno di noi è un potenziale protagonista. È come se ci sentissimo costantemente gli occhi addosso: del resto, almeno potenzialmente è così. E allora abbiamo sviluppato questo meccanismo di difesa che ci fa percepire quest’imbarazzo quasi fisico quando vediamo cose strane, fuori dall’ordinario. La cringe comedy mi sembra sia un modo per stigmatizzare, per ridere di qualcosa di cui in realtà abbiamo paura.
6. Su Pillole di Futuro Presente tratti estesamente il tema degli algoritmi dei social network, spesso legati a problematiche di deficit dell’attenzione che certi recenti trendnon fanno che acuire. Credi che per ovviare a questo e altri problemi dei social, specie per i più giovani, siano opportuni interventi regolatori da parte dei governi, o si tratta piuttosto di un terreno da lasciare deregolamentato? Ritieni sia possibile una terza via fra proibizionismo e vuoto normativo?
L’unica strada, per me, è l’educazione. I divieti funzionano poco: bisogna educare al digitale, desacralizzare le piattaforme, raccontare i possibili effetti che un uso poco consapevole dei social media possono avere. È come se dovessimo adattarci a una nuova realtà, che è arrivata in modo talmente veloce che non abbiamo nemmeno avuto il tempo di capire come abitarla.