Del: 30 Settembre 2024 Di: Redazione Commenti: 0
L’emergenza deepfake in Corea del Sud

La frontiera dei crimini digitali ha ulteriormente espanso il proprio territorio attraverso una nuova, insidiosa pratica che spopola all’interno della rete mondiale: l’utilizzo del deepfake, letteralmente tradotto “profondo falso”. Secondo la definizione data dal Cambridge Dictionary, esso consiste nell’utilizzo di un video o di un suono registrato che mima il volto o la voce di una persona confondendoli con quelli di qualcun altro, in un modo assolutamente realistico e tale da indurre in errore terzi estranei.

Chiaramente il deepfake risulta assai pericoloso se utilizzato con intenti malevoli, concretizzandosi in fattispecie criminose quali (fra le tante) truffe ed estorsioni, falsificazione di documenti, diffusione di notizie false – così da contribuire come conseguenza alla manipolazione e polarizzazione delle opinioni nel tessuto sociale – e infine, come tristemente prevedibile, sfruttamento sessuale di minori sulle piattaforme online e pornografia virtuale non consensuale. 

Il target principale dei reati a sfondo sessuale rimangono dunque donne e bambini, vittime ancora una volta di un impiego distorto dei più sofisticati mezzi tecnologici e della creazione di nuove e moderne funzionalità riconducibili allo sviluppo dell’intelligenza artificiale. 

Nel panorama globale emerge in particolare una nazione che sta tentando di fronteggiare il dilagare dei cosiddetti deepfake crimes: la Corea del Sud. 

Prima di approfondire la questione relativa a tale tipologia di crimini digitali è bene però fare un passo indietro ed esaminare la situazione in cui versa il paese asiatico sul versante discriminazione e condizione femminile, analizzare quindi come le donne effettivamente vengono percepite e quali pressioni subiscono le stesse nella vita di tutti i giorni. 

La Corea del Sud, indubbiamente uno dei paesi più avanzati dell’Asia dell’est, soffre da svariati anni di un radicato problema di misoginia, il più delle volte nascosto alla lente occidentale dallo stereotipo di un paese ridente, tecnologico e famoso prettamente per la sua coinvolgente musica K-pop (di un problema analogo soffre d’altronde il vicino Giappone, anche se in modi diversi). 

In risposta a una società fortemente oppressiva ed esigente, che pretende dalla propria compagine femminile un ruolo subalterno, remissivo e quasi servile nei confronti della controparte maschile, il movimento femminista sudcoreano ha prodotto uno dei gruppi più aggressivi all’interno del panorama radicale: il Movimento 4B

Il fulcro di quest’ultimo può essere riassunto nella rivendicazione più volte pronunciata dai suoi esponenti: l’obiettivo non è combattere il patriarcato, ma lasciarlo alle spalle tutte insieme. 

Per raggiungere tale risultato le aderenti al gruppo si rifanno ai principi condensati appunto nelle “quattro B”: Bihon (no al matrimonio eterosessuale), Bichulsan (no al concepimento di figli), Biyeonae (no alle relazioni eterosessuali), Bisekseu (no a rapporti sessuali eterosessuali). Una visione rigida, si può dire drastica nelle relazioni che le stesse donne intessono con i propri simili, e che tuttavia ha proliferato ampiamente nel paese, soprattutto a seguito delle numerosissime testimonianze inseritesi nel solco del movimento MeToo e della nascita di un’ulteriore corrente, la campagna Escape The Corset che ha preso avvio nel 2017. 

Dentro quest’ultima viene raccolta tutta la rabbia delle donne coreane, schiacciate dagli irrealistici standard estetici che la società impone loro e soffocate dall’imperativo tutt’altro che implicito esistente nel paese: per farcela, e per diventare qualcuno, devi cambiare il tuo aspetto, diventare piacente oltre ogni limite, perché solo le sembianze di una bambola senza difetti potranno garantire il tuo posto nella società. Va da sé che la chirurgia plastica è fortemente consigliata. 

Teste completamene rasate, abiti larghi e informi, visi nudi e imperfetti senza neanche l’ombra di un ritocco: questa è tuttavia la nuova realtà di cui le femministe si fanno portatrici, guadagnandosi a seconda dei casi il rispetto delle compagne o l’astio degli uomini avversi a tale svolta ribelle. Ed è proprio dalla mancanza di accettazione e dal risentimento verso chi decide di non piegarsi che nasce l’impellente necessità di riportare le donne nei ranghi prestabiliti. 

Le armi a disposizione sono diverse, e fra queste spicca ora la manipolazione dell’immagine femminile per soddisfare esigenze puramente fallocentriche. 

L’emergenza deepfake ha raggiunto dimensioni tali durante l’estate 2024 da indurre lo stesso presidente sudcoreano, Yoon Suk Yeol, a spronare le autorità nell’aumentare gli sforzi investigativi per eradicare del tutto la problematica; nonostante ciò, quest’ultima rimane ancora fra le questioni più pressanti all’interno dell’agenda sociale. 

L’individuazione del metodo risulta oramai chiara, però. Le foto di ragazze (in grandissima parte minorenni) vengono postate all’interno di chat di gruppo sulla piattaforma Telegram a opera di amici e conoscenti, per venire poi modificate in contenuti sessualmente espliciti attraverso l’utilizzo della tecnologia deepfake da altri utenti. La target area principale sono dunque scuole e università, non mancando peraltro neanche la presenza di immagini di insegnanti e professoresse all’interno dei gruppi. 

I responsabili? Per la maggior parte ragazzi minorenni, compagni o addirittura familiari delle vittime che rimpolpano il mercato del deepfake quotidianamente. Soltanto nei primi sette mesi di quest’anno il numero di casi denunciati alle autorità relativo alla commissione di siffatti crimini digitali è di 297, sommandosi ai 180 dell’anno precedente e ai 160 nel 2021. Uno dei gruppi più numerosi di partecipanti allo scambio di immagini conta al suo interno più di 200.000 membri

Tendenze che si rivelano pericolosamente in crescita. La successiva risposta governativa, consistente nell’inasprimento delle sanzione e nell’ampliamento della sfera entro la quale gravitano gli stessi crimini digitali, è stata giudicata insufficiente, come sottolineato dalle recenti notizie pubblicate su Human Rights Watch. 

In un paese in cui la maggior parte dei pubblici funzionari e degli appartenenti alle forze di polizia sono uomini, in cui gli impieghi direttivi all’interno dell’amministrazione delle società e i ruoli più ambiti all’interno delle aziende vengono affidati solo in infima parte a membri femminili, e infine, in cui il divario salariale tocca picchi inaccettabili (le stime riportano dati relativi a un 31%),  non è difficile comprendere come il vero nucleo del problema consista nella poca serietà e delicatezza con cui la questione deepfake viene trattata. 

Persino il Capo dello Stato è stato più volte tacciato di tacito collaborazionismo o, meglio, di perdurante inerzia rispetto all’esigenza di affrontare la scottante problematica da parte delle maggiori esponenti dei gruppi femministi. 

Ciò di cui la Corea del Sud avrebbe bisogno è una comprensiva opera di rieducazione della popolazione maschile, di modo da ben elucidare la gravità dei crimini commessi e la serietà delle conseguenze che ne derivano; opera che innanzitutto non può prescindere da una capillare diffusione dell’educazione sessuale, a gran voce richiesta come obbligatoria nelle scuole del paese. 

Non aiuta d’altronde la recente decisione del Presidente Yeol di smantellare il Ministero delle Pari Opportunità e della Famiglia, dal momento che, a suo dire, «il sessismo sistemico non esiste più in Corea del Sud». Dichiarazioni di tale calibro contraddicono l’evidente realtà presente nel paese e contribuiscono a creare un clima di sfiducia sempre più accentuato nei confronti delle istituzioni. 

Come già sottolineato, i crimini deepfake nascono dalla necessità di affinare ulteriori strumenti volti a umiliare le donne, dalla sete di schernire e ridicolizzare le ambizioni, i desideri e la stessa esistenza delle compagne. Ridotte a meri pixel manipolabili a nostro piacimento, tali devono rimanere. 

Dal profilo X del gruppo femminista Sud Coreano Team Cat

Tutto questo è confermato da studi incentrati su un’attenta analisi delle dinamiche socio relazionali, che evidenziano quale elemento di discrimine fra il fenomeno deepfake e altri crimini lo scopo cui tendono gli aggressori, ovvero lo svilimento delle donne. 

Secondo quanto affermato dalla ricercatrice Chang Dahye presso l’Istituto coreano di Criminologia e Giustizia di Seoul, fattispecie criminose di siffatta matrice portano chi è colpito a «perdere fiducia nelle loro comunità», poiché «la sicurezza nelle relazioni sociali si sgretola» non potendo più le vittime confidare nell’integrità di colleghi, amici e compagni. 

In ultima analisi va sottolineato come anche le statistiche relative alla denuncia di crimini della sfera digitale siano tutt’altro che incoraggianti: la percentuale di arresto per la produzione di materiale pornografico online attraverso la tecnologia deepfake è del 48%, di gran lunga minore rispetto a quelle previste per altre forme di aggressione virtuale. Gli aggressori riescono poi a sfuggire il più delle volte alla comminazione della pena attraverso la sospensione condizionale di quest’ultima. 

Su cosa possono contare dunque oggi le donne coreane? Sull’attenzione dei media internazionali, a quanto pare, che fortunatamente si sta amplificando sempre più. Numerosi sono i post comparsi sulla piattaforma X (ex Twitter), in cui lunghi thread spiegano cosa esattamente stia accadendo in Corea del Sud riportando richieste di aiuto scritte dalle vittime di deepfake, accanto a immagini piuttosto esplicative in relazione alla quantità di luoghi coinvolti dal fenomeno, mostrati su mappe geografiche, e a screen di conversazioni svoltesi nelle chat-room di Telegram. Sembra infatti che solo il fatto di rivolgersi all’esterno del Paese abbia finalmente convinto il governo ad agire più incisivamente, ma la strada da percorrere resta incerta.

Articolo di Vittoria Menga.

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