Ce ne sono per tutti i gusti. Azione, commedia, drama, crime, romantico: basta scegliere il genere preferito e in un attimo ogni piattaforma di streaming che si rispetti è pronta a offrire una vasta gamma di prodotti preconfezionati, pronti per la visione. A te la scelta. Se non sai cosa guardare, basta andare sulla home e vedere cosa riserva. Tra Emily in Paris e Taxi driver, lo sguardo viene subito attratto da un titolo: Monsters. A caratteri cubitali, il nome della docu-serie targata Netflix non passa inosservato, così come la maggior parte dei prodotti true crime disponibili sulla piattaforma. La curiosità inizia a stuzzicare, fino a trasformarsi in attrazione, generando la stessa dinamica emotiva che troppo spesso si innesta in noi quando leggiamo notizie di cronaca nera in prima pagina sui giornali.
Sembra di entrare nelle vite dei protagonisti di queste notizie, quasi ci si affeziona, si empatizza con un ‘personaggio’ piuttosto che l’altro. Si finisce, inevitabilmente, per prendere posizione. La descrizione, analitica, di come sono andate le cose, dei dettagli che contornano il fatto, alimenta il desiderio di saperne di più. Le notizie di cronaca nera, per come troppo spesso vengono proposte sui media, riescono a trascinarci in un vortice di curiosità morbosa. È successo con la narrazione dell’omicidio di Giulia Tramontano, a maggio 2023: dettagli dell’accaduto dati in pasto ai lettori senza alcuna opera di filtraggio, tanto da rendere il contorno l’aspetto più ‘discusso’ della vicenda, ancora più del fatto in sé.
Ed è successo ancora a luglio 2023, Palermo, in merito al caso che ha visto un gruppo di sette ragazzi picchiare e violentare una ragazza di 19 anni. Pochi mesi dopo, in esclusiva su Avanti Popolo, è andata in onda l’intervista alla ragazza. Domande sempre più incalzanti che hanno messo a nudo una donna vulnerabile di fronte a milioni di italiani, costringendola ad assistere alla spettacolarizzazione del proprio stupro. Modena, settembre 2024: le televisioni trasmettono la confessione resa in diretta da Lorenzo Carbone. Un uomo di 50 anni, in evidente stato confusionale e di disperazione, ammette di aver ucciso la madre 80enne. Incalzato dai giornalisti, cerca di spiegare perché e come ha commesso il fatto. Le lacrime dell’uomo, riprese in primo piano, sono diventate virali.
Venerdì 20 settembre: in esclusiva a Quarto Grado viene trasmesso l’interrogatorio a Filippo Turetta, reo confesso per l’omicidio di Giulia Cecchettin. A pochi giorni dall’inizio del processo, il programma ha mandato in onda parte dell’interrogatorio risalente a dicembre 2023. Le dichiarazioni rese agli inquirenti, intrise di dettagli relativi alla consumazione dell’omicidio, circolano sul web, accompagnate da commenti pseudo-psicologici sullo stato emotivo di Turetta nel rendere la confessione. Una vicenda terribile, quella che ha visto vittima Giulia Cecchettin, una vicenda che ha sconvolto l’intero Paese e riacceso l’attenzione, forse come mai prima, sul tema dei femminicidi in Italia. Ma a cosa è servita la messa in onda dell’interrogatorio di Turetta, se non a trascinarci nell’ennesimo circuito di pornografia mediatica e del dolore?
È servito a informarci, o piuttosto a intrattenerci?
«Questo non è il processo contro i femminicidi ma un processo contro il singolo che si chiama Turetta e che risponderà dei reati che gli sono stati contestati. Se si sposta questo quadro a obiettivi più ampi si snatura totalmente il processo. Il processo non è uno studio sociologico, che si fa in altre sedi, il processo è l’accertamento di responsabilità dei singoli»: sono le parole del procuratore di Venezia Bruno Cerchi. La divulgazione massiccia e indiscriminata in sede extraprocessuale di documenti, dichiarazioni e dettagli autocompiaciuti sulla vicenda rischia di avere ripercussioni anche nelle aule di giustizia, facendo di un processo che vede coinvolto un singolo una battaglia ideologica.
Ma è lo stesso articolo 27 comma 1 della nostra Costituzione («la responsabilità penale è personale») a vietare che la responsabilità di un singolo possa essere elevata a una forma di colpa generale (nel caso di specie per i femminicidi commessi in Italia), con il rischio di arrivare all’inflizione di pene esemplari, facendo dell’imputato il vessillo di una battaglia che trascende la singola vicenda. Con una conseguente regressione in termini di civiltà.
Siamo di fronte a una dinamica che vede scontrarsi l’imprescindibile diritto di cronaca giudiziaria, insieme alla legittima aspettativa delle persone di essere informate su ciò che è accaduto, con i diritti dell’imputato, anche quando reo confesso. Un conto è essere informati, sobriamente, sui fatti in questione, in modo da avere una chiara rappresentazione della vicenda; altro conto è essere continuamente investiti da dichiarazioni, immagini, video e particolari che nulla aggiungono al fatto in sé e che portano all’instaurarsi di un processo mediatico, parallelo a quello che avviene nelle aule di giustizia, ma potenzialmente in grado di influenzarlo.
Questi processi mediatici per loro natura hanno la forza di creare tensioni e allarmismi nella gente. E gli allarmismi portano all’emersione di un altro indesiderabile fenomeno, noto come populismo penale. Si tratta di un uso demagogico da parte della politica degli strumenti offerti dal diritto penale, finalizzato a cavalcare le paure diffuse in un dato momento storico, quelle che si formano soprattutto in occasione di tragiche vicende di cronaca nera. Si arriva così all’introduzione di inasprimenti di pene, di nuove figure di reati e di politiche securitarie che poco servono a prevenire la criminalità, ma che possono molto in termini di consenso elettorale.
Come sottolineato dal giurista ed ex magistrato Luigi Ferrajoli, l’Italia è uno dei Paesi più sicuri al mondo, tanto che negli ultimi 20 anni si è avuta una riduzione costante del numero di delitti. Ma è aumentata la sensazione di insicurezza, per quel divario tra realtà e percezione che si crea a causa di narrazioni mediatiche distorte ed enfatiche, con la conseguenza di interventi repressivi mirati da parte della politica.
Resta invece alto il numero di femminicidi, ma anche questa drammatica realtà, che rappresenta un problema strutturale e non una temporanea emergenza, dovrebbe essere affrontata dalla stampa e dai media senza spettacolarizzazioni, per evitare di finire nel cortocircuito della repressione fine a se stessa, con il rischio di dimenticare che lo strumento su cui si deve puntare, più di ogni altro, è quello della prevenzione.