Del: 1 Novembre 2024 Di: Michele Cacciapuoti Commenti: 0
Elezioni USA, perché i candidati vanno nei podcast?

La «prima campagna elettorale dei podcast», l’ha definita il giornalista Francesco Marino. Persino «l’elezione dei podcast», ha sostenuto il suo collega Francesco Costa. Ed è vero: entrambi i candidati alla presidenza degli Stati Uniti si sono dedicati a questo medium, molto più che nelle precedenti tornate.

Non si parla qui delle semplici comparsate con domande di argomento non politico, come quella del candidato vice democratico Walz sui canali di Reece Feldman, legati al cinema – un contenuto analogo alle interviste “canore” di Dejan Cetnikovic in Italia. Si tratta al contrario di interventi, anche lunghi fino a un’ora e mezza, su canali che abitualmente trattano di politica e che fanno domande programmatiche ai candidati.

Certo, questo non significa che gli intervistatori siano particolarmente mordaci, anzi: il format stesso di questo tipo di podcast secondo Marino prevede «una sensazione generale di informalità, unita a un’assenza pressoché totale di qualunque genere di domanda, di mediazione». Inoltre, Harris e Trump scelgono accuratamente i propri intervistatori, offrendosi generalmente ai podcast dalle idee più vicine alle loro: una strategia non ignota al mezzo televisivo, né negli USA né in Italia.

Harris, ad esempio, questo ottobre si è fatta intervistare su Call her daddy: si tratta di un podcast nato nel 2018 come canale di aneddoti e consigli, ma che nel 2021 (dopo un supposto accordo multimilionario con Spotify) si è concentrato sempre di più sui diritti riproduttivi e la salute mentale. Nell’intervista infatti si è parlato di aborto e diversi modelli di maternità, ma con uno sguardo moderato alle fedi religiose. A dire il vero, secondo Reuters Harris starebbe pensando di avventurarsi in quella che per lei sarebbe una “tana del lupo”, il podcast di Joe Rogan.

Joe Rogan

Rogan, cinquantasette anni, ha alle spalle una carriera da comico; a partire (almeno) dal 2013 con il programma televisivo Joe Rogan questions everything, ha iniziato ad accarezzare il mondo cospirazionista. Già dal 2009 conduce il podcast The Joe Rogan experience, che nel 2020 sarebbe valso al suo autore 200 milioni di dollari di esclusiva a Spotify e che su YouTube conta oltre 5 miliardi di visualizzazioni.

Controverso fra le altre cose per l’utilizzo di alcuni termini razzisti, il suo podcast questo ottobre ha ospitato Trump, che ha battuto sul tempo l’avversaria: si è parlato (bene) del generale sudista Lee, ma anche di alieni, della falsa teoria sui brogli del 2020, di tasse ed ecologismo. Su quest’ultimo tema, va detto, Rogan ha un po’ incalzato l’ex-presidente; del resto, quest’estate aveva pubblicamente sostenuto DeSantis, principale avversario di Trump alle primarie repubblicane.

Il riferimento a Joe Rogan può essere una chiave di lettura dell’exploit di questo mezzo di comunicazione presso i politici americani, soprattutto per quanto riguarda Trump.

Marino parla di una fetta specifica dei podcaster, vale a dire la «manosphere. E cioè, in sostanza, giovani uomini bianchi – e non solo – che si oppongono al politicamente corretto e alla cultura woke». Della manosphere abbiamo parlato più volte, su Vulcano: il formato del podcast è irriducibile a un insieme di autori o di ascoltatori esclusivamente maschi e bianchi; il suo immenso successo ha infatti implicato onnipresenza e dunque diversificazione in diversi segmenti demografici. È però possibile recuperare qualche dato a sostegno di una caratterizzazione maschile e caucasica del medium, almeno nel decennio scorso – cosa che i meme non si sono lasciati sfuggire.

E i podcast scelti specificamente da Trump si collocano spesso in questa manosphere (oltre che talvolta nell’alveo cospirazionista), bacino che rappresenta ormai uno zoccolo duro trumpiano e un target ricercato dalla stessa Harris. Ecco che allora secondo il New York Times Trump «fa la corte al bro vote» o al «manoverse»: vengono citati i Nelk Boys statunitensi e canadesi, titolari dal 2021 di un podcast su cui sono comparsi Elon Musk, l’influencer misogino Andrew Tate, il commentatore della Fox Tucker Carlson, e Trump stesso, nel 2022. L’intervista, in cui Trump rilanciava la tesi dei brogli, è stata rimossa da YouTube.

Questo manoverse, continua il NYT, non è ristretto all’ambito dei podcast: un circuito parallelo sarebbe quello delle arti marziali miste e in particolare dell’organizzazione UFC, fondata da Dana White (imprenditore legato anche alle virilissime gare di schiaffi, che sostiene Trump dal 2016 e ha più volte presenziato alle convention repubblicane). È presso la UFC che Trump ha incontrato i Nelk Boys, ed è con la UFC che Joe Rogan nel 1997 intraprese la carriera da intervistatore; sempre dal manoverse e dall’ambito sportivo emerge David Portnoy, che nel 2004 ha fondato l’universo mediatico di Barstool Sports, rivolto a giovani uomini impegnati nella guerra contro il politicamente corretto. Sostenitore di Trump dal 2015, Portnoy ha intervistato l’allora presidente nel 2020, pur distanziandosene in materia di aborto.

Questi non sono nemmeno i nomi più noti fra le personalità di Internet che di recente hanno intervistato Trump: quest’estate, il candidato repubblicano è comparso nell’ordine sui canali di Logan Paul, Adin Ross e Theo Von. Il primo, ventinovenne, si trova su YouTube dagli albori della piattaforma stessa e raggiunse il successo grazie al sito Vine. Noto per la controversia del 2017 riguardante il suo comportamento irrispettoso nella “Foresta dei sucidi” in Giappone, il suo canale è stato demonetizzato a seguito di episodi analoghi successivi.

Logan Paul

Paul si è dunque spostato sulla piattaforma Twitch, al tempo promettente far west deregolamentato. La sua carriera da allora è costellata di gaffe e scandali, ultima quella sulla bibita Prime e i pasti confezionati Lunchly da lui prodotti con altri youtuber. Oltre a una passata carriera televisiva, il creator ne ha avviata un’altra nel 2021: anche lui nelle arti marziali miste. Quest’immagine machista è forse l’unico vero collegamento con gli altri creator, dato che il suo canale non è a tema politico. Paul ha intervistato Trump a giugno sul suo podcast Impaulsive, in cui il tycoon ha schernito l’allora rivale Biden, reputando impossibile una sua apparizione su quel canale (dove invece l’autore ha colto l’occasione di invitare il presidente).

Adin Ross, 24 anni appena compiuti, ha esordito su Twitch nel 2019 e a suo modo è stato implicato nella vicenda di Andrew Tate: ha tentato di visitarlo quando quest’ultimo era stato arrestato in Romania per traffico di esseri umani nel 2022, e due anni dopo ha causato un nuovo arresto rivelando per errore la possibilità di una fuga di Tate all’estero. Dopo sette ban temporanei da Twitch per il linguaggio offensivo impiegato da Ross, la piattaforma (non più così far west) nel 2023 ha deciso di bandirlo per sempre.

La sua carriera è allora proseguita su Kick, dove ad agosto ha intervistato Trump, superando il mezzo milione di visualizzazioni in diretta. Trump, che ha ricevuto l’endorsement di Ross, ha parlato del «golpe» di Harris contro Biden e delle voci su un attacco iraniano a Israele (avvenuto solo ad ottobre), per concludere con la sua classica playlist musicale. Con loro era presente xQc (Félix Lengyel), videogiocatore professionista; Ross ha recentemente intervistato anche Nick Fuentes, giovane streamer di estrema destra.

Theo Von, infine, ha 44 anni e sin dall’adolescenza ha fatto il comico; nel 2018 ha scritto lo spettacolo Man up, mentre dal 2016 gestisce il podcast This past weekend (ma è stato anche ospitato da Joe Rogan). Su questa piattaforma, ad agosto ha intervistato sia il democratico Bernie Sanders (parlando di sanità), sia Trump.

Tutto questo entourage non dimostra solo come sia miope la svalutazione di questi influencer come qualcosa di relativo a dei ragazzini poco più che teenager – svalutazione miope anche in Italia su TikTok, come argomentiamo su Vulcano, e che Umberto Eco avrebbe giudicato “apocalittica”. Non è un caso che Trump, cambiata idea sul social cinese, ne abbia tessuto le lodi presso Adin Ross, e che si sia aperto un profilo proprio con Logan Paul.

Ma questa, forse a differenza che da noi, non è solo una «svolta Gen Z» (anche se Trump si fa consigliare dal figlio): più di metà dei nomi citati ha oltre trent’anni, in molti casi più di quaranta; lo stesso Carlson, cacciato dalla Fox, si è dovuto spostare sui social; almeno negli USA, l’influenza di questi podcast non è ristretta a Internet (ma il web è mai stato stagno?).

Si potrebbe scomodare il nome di Alex Jones: 50 anni, texano, presentatore radiofonico e titolare del podcast Infowars dal 1999. Ha fatto fortuna con le teorie cospirazioniste sull’11 settembre e col negazionismo delle sparatorie scolastiche, finendo in tribunale; nemmeno Musk l’ha riammesso su Twitter. Dal rapporto altalenante con Trump (in quanto più complottista di lui), ha sostenuto le fake news sui brogli e ha finanziato l’assalto al Campidoglio del 2021.

Questi personaggi non sono meri podcaster, o meglio: lo sono e non significa nulla, perché ormai è un format così invalso da essere polisemico, e quindi in sé neutro. Molti di loro sono definibili pundit, duri opinionisti.

Non sono così distanti allora dal trentunenne Charlie Kirk, che nel 2012 ha fondato la Turning Point USA, dedita alle teorie cospirazioniste soprattutto sul politicamente corretto nelle università e dunque attento al target studentesco. Kirk ha presenziato alla convention repubblicana nel 2016 e ha guidato la Students for Trump nel 2020.

Non sono neanche così distanti da Ben Shapiro, opinionista quarantenne e autore di Brainwashed (2004, sul politicamente corretto nelle università); fondatore del Daily Wire, con quest’ultimo ha creato nel 2015 il podcast The Ben Shapiro Show. Ha sostenuto molto l’amministrazione Trump e la sua ricandidatura nel 2020, almeno fino alle teorie sui brogli.

Kirk e Shapiro

L’influenza di questi opinionisti (persino religiosa) è tale che a settembre il governo ha accusato Tenet Media, un network nato nel 2022, di essere legato alla propaganda russa (strategia più fine rispetto ai precedenti troll): in Tenet erano coinvolti Benny Johnson (di Turning Point USA e già nel Breitbart con Shapiro, ne avevamo già parlato), Dave Rubin e Tim Pool (che a maggio ha intervistato Trump).

E non è un caso che Alex Jones sia stato invitato da Joe Rogan, o che i Nelk Boys abbiano intervistato Shapiro (che nel frattempo, come Kirk, si è specializzato nel format dei dibattiti botta-e-risposta con gli studenti). E nemmeno che quest’estate Musk si sia accompagnato proprio a Tate nel diffondere fake news, o che Kirk sia stato l’anello di congiunzione fra Trump e la voce sugli immigrati che mangiano i gatti.

Né che Kirk, Shapiro e Rubin abbiano precedentemente dichiarato il loro supporto a DeSantis, infastidendo non poco Trump. Maschi, bianchi, testosteronici, rivolti ai giovani e sensibili al politicamente corretto (perché ex-comici o perché martiri dei regolamenti delle piattaforme): Trump non vuole farseli sfuggire.

Michele Cacciapuoti
Laureato in Lettere, sono passato a Storia. Quando non sto guardando film e serie od osservando eventi politici, scrivo di film, serie ed eventi politici.

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