Da pochi giorni si sono concluse le elezioni presidenziali statunitensi e tra le tante sfaccettature che le hanno contraddistinte vi è stata, senza dubbio, la volontà da parte di personaggi famosi di prendere posizione.
C’è chi ha appoggiato Donald Trump, candidato del Partito Repubblicano, e chi ha sostenuto Kamala Harris, candidata del Partito Democratico. Il tutto con modalità differenti: post su Instagram, video diffusi su Twitter, discorsi tenuti in occasione dei comizi e molto altro.
Ma cosa significa effettivamente dare l’endorsement a un candidato e quali conseguenze può avere?
Gli endorsement sono una caratteristica delle campagne elettorali statunitensi e rappresentano una “indicazione di voto” o appoggio a un candidato. Quando si concede l’endorsement, si sostiene pubblicamente uno dei due potenziali futuri presidenti e, di conseguenza, viene legittimata la validità delle sue proposte.
Tale pratica è una peculiarità consolidata della politica statunitense e a manifestare il loro supporto – molto utile in campagna elettorale – nei confronti dei candidati possono essere per esempio esponenti del loro partito, dei sindacati e delle organizzazioni sociali. Soprattutto negli ultimi anni, però, è diventato fondamentale accaparrarsi l’endorsement di personaggi rinomati quali atleti, cantanti, attori o influencer. Proprio la dichiarazione di sostegno da parte delle “star” potrebbe influire sul grande pubblico portando alla mobilitazione degli elettori e a un aumento della raccolta fondi per la campagna.
Le prime pratiche degli endorsment da parte di celebrità risalgono a circa un secolo fa quando il candidato repubblicano Warren G. Harding, poi divenuto presidente nel 1920, ottenne l’appoggio del cantante e attore Al Jolson e dell’attrice di film muti Mary Pickford.
Negli anni successivi altre star dichiararono pubblicamente il loro voto, tra esse possiamo citare il cantante e attore Frank Sinatra, il quale diede il suo endorsement a Franklin D. Roosevelt, John F. Kennedy e Ronald Reagan, e la presentatrice Oprah Winfrey, che appoggiò Barack Obama nel 2008 portando (secondo uno studio della Northwestern University e della University of Maryland) un milione di voti in più al candidato democratico.
Durante la campagna elettorale statunitense appena conclusa, diverse celebrità hanno dato il proprio endorsement a Donald Trump o a Kamala Harris.
Il candidato repubblicano ha potuto contare, per esempio, sul miliardario Elon Musk, sul cantante Kid Rock, sugli attori John Voight e Dennis Quaid e sugli YouTuber Nelk Boys. Harris, invece, ha avuto tra i suoi sostenitori star mondiali come Beyoncé, Julia Roberts, Billie Eilish, Robert De Niro, Bruce Springsteen, Barbra Streisand e Spike Lee.
Ma parlando degli endorsement più significativi nella campagna del 2024 non si può non citare la dichiarazione pubblica della cantante Taylor Swift. L’artista da diversi anni si è interessata di politica, anche se durante lo scontro tra Trump e Hillary Clinton nel 2016 non si espresse a favore della candidata democratica.
Il suo comportamento suscitò notevoli critiche, ma la stessa Swift spiegò, in un’intervista a Vogue nel 2019, che la sua scelta era volta a ridurre i danni alla campagna di Clinton, dal momento che Trump stava usando gli endorsement come un’arma contro la rivale.
Successivamente, Swift si è sempre espressa sulle elezioni presidenziali e legislative: nel 2020 diede il suo sostegno a Joe Biden e lo scorso settembre, dopo la fine del dibattito fra Trump e Harris, l’artista ha pubblicato un post sul suo profilo Instagram annunciando che il suo voto sarebbe andato alla candidata democratica.
Ma quanto contano gli endorsement oggi?
Per rispondere a questa domanda, vanno distinti due filoni. Il primo sottolinea come le dichiarazioni pubbliche di voto possano essere superflue dato che sempre più spesso il pubblico più giovane, ovvero la Gen Z, chiede alle star di spiegare la loro opinioni su temi al centro della sfera politica, quali l’aborto, la regolamentazione delle armi o il movimento Black Lives Matter. Questi dibattiti evidenziano posizioni precise e differenti tra i due partiti, quindi nel momento in cui le celebrità si espongono diventa semplice capire per quale candidato propendono. Per i fan della Swift, infatti, era abbastanza scontato che la cantante votasse per Harris.
Dall’altra parte, però, gli endorsement sono attesi con trepidazione in quanto il pubblico vede l’appoggio ad un particolare schieramento politico come sincero e privo di secondi fini da parte delle celebrità. Soprattutto, uno studio della Kennedy School di Harvard pubblicato nel 2024 evidenzia che i sostegni delle star servono a tenere vivo il dibattito e a ricordare alle persone che bisogna registrarsi per votare.
La portata di queste dichiarazioni, quindi, è in gran parte positiva, ma in alcuni casi gli endorsement possono essere dannosi per i candidati.
Un caso celebre ha come protagonista la stessa Hillary Clinton, candidata democratica sconfitta da Donald Trump durante la corsa presidenziale del 2016. Varie ragioni possono spiegare tale sconfitta ma una di queste fu proprio il sostegno ricevuto da alcune celebrità di Hollywood. Gli endorsement di personaggi quali Robert Downey Jr., Julianne Moore, Scarlett Johansson, Mark Ruffalo e Stanley Tucci ritrassero Clinton come una candidata elitaria distante dal ceto medio. Di conseguenza, ciò portò alla perdita di molti voti per il Partito Democratico, giovando a Trump, il quale si ritrasse come candidato del popolo.
Durante la campagna presidenziale statunitense, inoltre, l’endorsement può arrivare anche da giornali molto prestigiosi.
Di recente si sono trovati al centro di una tempesta due delle testate più antiche negli Stati Uniti, ovvero The Washington Post e The Los Angeles Times, per via della decisione – non condivisa dagli stessi membri delle redazioni – di non dare il proprio appoggio a nessuno dei due candidati.
I due giornali presentano alcune caratteristiche in comune: sono entrambi progressisti, la proprietà è in mano a due miliardari e la scelta ha suscitato le proteste di giornalisti e lettori, con la conseguente cancellazione di decine di migliaia di abbonamenti nel giro di pochi giorni. Ma le due decisioni vanno distinte.
Il Washington Post è un quotidiano rinomato soprattutto per aver condotto inchieste famose come quella che scatenò lo scandalo del Watergate (1972) e la conseguente caduta dell’allora presidente Richard Nixon. Dopo essere stato per lungo tempo di proprietà di editori “puri”, ovvero dalla famiglia Grahm, la testata attraversò un periodo di crisi e fu salvata nel 2013 da Jeff Bezos, fondatore di Amazon.
Alla vigilia elettorale i lettori sono stati colti di sorpresa:
l’amministratore delegato del Washington Post, William Lewis, con un editoriale ha reso nota la decisione di non appoggiare pubblicamente né Trump né Harris.
A detta di Lewis, il giornale vorrebbe cambiare il proprio atteggiamento politico evitando gli endorsement formali, al contrario di quanto fatto nell’ultimo mezzo secolo. Anche Bezos è intervenuto giustificando la scelta in un duplice modo: innanzitutto, ha sottolineato come per molti anni dalla sua nascita il Washington Post non ha espresso pubblicamente il proprio appoggio a nessuno dei candidati; inoltre secondo Bezos dare un’indicazione di voto sarebbe una contraddizione rispetto al ruolo indipendente e imparziale della stampa.
In un’analisi, Federico Rampini, giornalisti per il Corriere della Sera, ha individuato altre due interpretazioni plausibili.
La prima riguarderebbe esclusivamente Bezos: essendo proprietario di Amazon e contrattando con il governo federale, il miliardario avrebbe preferito non esporsi a favore di Harris data la possibile (e ora certa) vittoria di Donald Trump.
D’altra parte, secondo Rampini, bisogna anche allargare le proprie vedute. Tra le pagine del Washington Post si possono infatti leggere quotidianamente articoli contro il candidato repubblicano: risulterebbe quindi lampante il favore della testata nei confronti di Harris ma probabilmente i lettori non si sarebbero accontentati dei numerosi contenuti in contrasto con la linea del Partito Repubblicano e avrebbero preferito un editoriale specifico sull’Election Day.
Il secondo giornale al centro delle critiche è il Los Angeles Times, il cui proprietario è Patrick Soon-Shiong, 72enne nato in Sudafrica da genitori cinesi.
Egli già in passato si era esposto pubblicamente circa il suo orientamento politico, affermando di essere simpatizzante per la sinistra radicale. Il Los Angeles Times ha tratti progressisti ed è stato fondamentale nel corso degli anni per i cittadini della west coast. Perché, quindi, non è stato espresso l’appoggio al Partito Democratico in queste elezioni?
Alla base del mancato endorsement vi è una motivazione diversa da quella del Washington Post: l’intervento di Soon-Shiong sulla linea editoriale sarebbe dipeso dalla figlia, indignata dalla gestione della guerra in Medio Oriente e del genocidio del popolo palestinese a Gaza. Puntando il dito contro l’Amministrazione Biden-Harris, quindi, si criticherebbe il partito democratico in quanto troppo filo-israeliano.
Dopo queste decisioni, le reazioni sono state molteplici. Con la pubblicazione dell’editoriale del Washington Post, il comitato di redazione ha manifestato la propria preoccupazione e l’opinionista Robert Kagan si è dimesso in segno di protesta. Inoltre, anche Bob Woodward e Carl Bernstein, i due ex giornalisti del Washington Post diventati famosi per l’inchiesta del Watergate, si sono detti delusi dalla decisione. Entrambe le testate hanno poi ricevuto critiche dai lettori e, secondo il giornale online Semafor, circa 2mila persone hanno interrotto il proprio abbonamento al Washington Post soltanto nelle prime 24 ore.
In Italia la pratica degli endorsement non è così sentita come negli Stati Uniti, anzi potrebbe risultare ambiguo l’appoggio ai candidati politici da parte di testate o di celebrità. Per i cittadini statunitensi, invece, si tratta di un passaggio fondamentale in ogni campagna elettorale e si configura come una tradizione ormai stabile e con un peso politico importante.