Non possiamo più permetterci di essere indifferenti, non c’è più tempo per voltare lo sguardo altrove.
Questo è un estratto del discorso di Gino Cecchettin, pronunciato in occasione dell’inaugurazione della Fondazione intitolata a sua figlia Giulia, il 18 novembre, alla Camera dei Deputati. Cecchettin ha descritto la violenza di genere come un «fallimento collettivo» e «il risultato di una cultura che troppo spesso tollera l’indifferenza e il silenzio».
La Fondazione, che nasce per volontà della famiglia di Giulia, vittima di femminicidio nel novembre dello scorso anno, ha l’obiettivo primario di onorare la memoria della giovane e di combattere la violenza di genere in ogni sua forma. Nel fare questo, la Fondazione parte dal presupposto che il femminicidio sia un fenomeno culturale, le cui radici vanno ricercate in un modus vivendi e pensandi patriarcale e maschilista.
La Fondazione Giulia Cecchettin promuoverà quindi numerose iniziative per prevenire e contrastare la violenza sulle donne. Oltre a offrire un supporto alle vittime di violenza, la Fondazione si pone l’obiettivo di promuovere cambiamenti educativi, che coinvolgano le famiglie, le scuole, le agenzie di formazione e gli ambiti lavorativi e sportivi.
A far discutere sono state le parole del Ministro dell’istruzione e del merito Giuseppe Valditara, pronunciate alla Camera durante la presentazione della Fondazione. Valditara ha negato l’esistenza del patriarcato (terminato, a suo dire, nel 1975) e ha definito la lotta contro di esso più il sintomo di una «cultura ideologica» che una «concreta strada per contrastare la violenza di genere».
Il ministro non ha negato la necessità di coinvolgere le scuole e le famiglie nella lotta contro la violenza sulle donne, ma ha fatto riferimento a una sola problematica specifica, da lui stesso definita come la più diffusa al giorno d’oggi: «una grave immaturità narcisista del maschio che non sa sopportare i no». Molto diversa, dunque, da una concezione «patriarcale e proprietaria della donna», che sarebbe, per Valditara, antica e superata.
Il discorso del ministro rischia però di creare una percezione che riduce le reali dimensioni del fenomeno della violenza di genere.
La Dichiarazione sull’eliminazione della violenza contro le donne, adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 20 dicembre 1993, riconosce che «la violenza contro le donne è una manifestazione delle relazioni di potere storicamente disuguali tra uomini e donne, che ha portato alla dominazione e alla discriminazione contro le donne da parte degli uomini e ha impedito il pieno avanzamento delle donne». Inoltre, «la violenza contro le donne è uno dei meccanismi sociali cruciali per mezzo dei quali le donne sono costrette in una posizione subordinata rispetto agli uomini».
L’articolo 3 della Convenzione di Istanbul fornisce una precisa definizione anche del concetto di violenza domestica: «la violenza domestica designa tutti gli atti di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all’interno della famiglia o del nucleo familiare o tra attuali o precedenti coniugi o partner, indipendentemente dal fatto che l’autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima».
Da queste brevi definizioni emerge come la violenza di genere sia un fenomeno ampio, che include il femminicidio, la violenza domestica, la cultura dello stupro, la violenza psicologica, la coercizione, le disuguaglianze economiche e lavorative, la dipendenza economica e numerose altre problematiche, le quali non possono essere unicamente riconducibili a «un’immaturità narcisistica del maschio che non sa accettare i no» a cui fa riferimento il Ministro.
Un altro passaggio del discorso di Valditara, fortemente criticato, riguarda l’ipotetica connessione tra l’aumento delle violenze sessuali e l’aumento dell’immigrazione illegale: «ci sono dei rischi nuovi, la diffusione, per esempio, di pratiche che offendono la dignità della donna. Da questo punto di vista deve essere chiaro ad ogni nuovo venuto, a tutti coloro che vogliono vivere con noi, la portata della nostra Costituzione, che non ammette discriminazioni fondate sul sesso. Occorre anche non far finta di non vedere che l’incremento dei fenomeni di violenza sessuale è legato anche a forme di marginalità e di devianza in qualche modo discendenti da un’immigrazione illegale».
Le parole di Valditara sono state aspramente criticate, poiché ritenute razziste e inadeguate.
La premier Giorgia Meloni, nei giorni successivi all’episodio, ha sostenuto il ministro, ribadendo che «i dati parlano anche di un’incidenza significativa dell’immigrazione illegale di massa su questa materia».
Leggendo e analizzando i dati riguardanti le violenze sessuali in Italia, più che la nazionalità, dovrebbe risultare allarmante un altro elemento, ossia il rapporto tra la vittima e il carnefice: sin dalla prima indagine sulla violenza contro le donne, svolta dall’Istat nel 2006, è stato sottolineato che «il 69,7% degli stupri è opera di partner, il 17,4% di un conoscente. Solo il 6,2% è stato opera di estranei». Dati più recenti analizzati nel report dell’Istat sui Centri antiviolenza (2023) ribadiscono che «la violenza nella coppia si conferma la più frequente (80% circa)».
In merito alla nazionalità di coloro che vengono denunciati per violenze sessuali, il fact checking di Pagella Politica analizza ciascun dato rilevante per esaminare quale sia la reale portata dell’immigrazione irregolare nell’aumento dei casi di violenza sessuale: secondo i dati dell’Istat del 2022, circa il 40% degli uomini denunciati per violenza sessuale sono stranieri. Tuttavia è bene sottolineare alcuni elementi: in primo luogo, i dati non consentono di distinguere tra immigrati regolari e immigrati irregolari, e di conseguenza capire quanti siano gli immigrati illegali a cui fa riferimento Valditara.
Inoltre, le violenze sessuali sono tra i reati con una dimensione sommersa più elevata, sono cioè tra i reati che vengono denunciati di meno dalle vittime (così è stato soprattutto negli scorsi anni). Non vi sono evidenze che l’aumento delle denunce per violenze sessuali sia direttamente riconducibile all’immigrazione illegale. Potrebbe, più presumibilmente, essere collegato all’efficacia delle iniziative sociali e politiche promosse negli ultimi anni, che hanno incoraggiato molte donne a sporgere denuncia.
La Fondazione Giulia Cecchettin esprime dunque la necessità di affrontare la violenza di genere come una responsabilità collettiva. Riconoscere le radici culturali che l’alimentano rappresenta il primo passo per un’azione collettiva in grado di contrastarla. La violenza contro le donne non può essere descritta come il prodotto di fragilità individuali o come il risultato di un’immigrazione incontrollata: come emerge dai dati analizzati, è il riflesso di squilibri di potere radicati nella nostra società. E, di fronte a questi squilibri, non possiamo più permetterci di essere indifferenti.