C’è un piccolo estratto della canzone Se non dai il meglio che calza bene: «In queste mie realizzazioni // Perdo le combinazioni // Senza avere conclusioni». Sono parole di Fabri Fibra, ma potrebbero tranquillamente essere di Francis Ford Coppola, che si è ritrovato in un frangente simile praticamente in ogni fase della produzione del suo nuovo film, Megalopolis, nelle sale italiane dal 16 ottobre.
Nelle numerose interviste rilasciate per promuovere il film, Coppola ha infatti spiegato che si tratta di un progetto che ha cercato di realizzare per molto tempo. Addirittura fin dagli anni Ottanta, poco dopo aver terminato riprese e montaggio di Apocalypse Now. Nel frattempo il regista italo-americano ha continuato a fare film, elaborando e sviluppando idee in parallelo ad altri progetti.
Proprio negli anni Ottanta, la carriera di Coppola era lanciatissima. Il regista era reduce da un decennio in cui aveva realizzato almeno quattro film memorabili, acclamati da pubblico e critica: Il Padrino e il suo primo sequel, La Conversazione e il già citato Apocalypse Now. Fu allora che iniziarono ad affiorare le prime difficoltà economiche. Dopo aver scritto e diretto Un sogno lungo un giorno, che si rivelò un disastro finanziario, Coppola fu costretto a vendere molte proprietà della sua casa di produzione, la American Zoetrope.
Alla fine degli anni Novanta, dopo il successo (quantomeno finanziario) di Dracula di Bram Stoker, Coppola rimise mano al progetto a cui teneva di più, approntò la sceneggiatura e si mise addirittura a cercare gli attori e le location. Ma dopo gli attentati al World Trade Center si rese conto che realizzare un film ambientato in una New York semidistrutta avrebbe potuto sembrare di cattivo gusto, e il progetto fu accantonato di nuovo.
Negli ultimi vent’anni Coppola ha accumulato altri fallimenti, sia di critica che di pubblico. Un’altra giovinezza è un ottimo esempio di tutto quello che ha smesso di funzionare nel suo cinema. Il film, del 2007, ha una trama molto intricata che cerca di tenere assieme i Nazisti, la ricerca di una fantomatica lingua universale, l’elaborazione della perdita della propria moglie e una struttura temporale che ricorda una parodia di Benjamin Button. Il risultato è un film confuso, incoerente e per nulla chiaro nei suoi punti centrali.
Nel 2009 fu la volta di Segreti di famiglia, che pur essendo un film migliore si rivelò comunque un fiasco al botteghino. Due anni dopo, Coppola presentò Twixt, la storia di uno scrittore in crisi, in bilico tra realtà e fantasia. Il film faceva un ampio uso di sequenze oniriche che però, come scrisse Kirk Honeycutt di The Hollywood Reporter, «il giovane Coppola avrebbero saputo sfruttare meglio».
La scelta di fare film che potremmo definire “originali”, ovvero dal gusto non troppo hollywoodiano, ha portato a due conseguenze: 1) che a Hollywood nessuno vuole più finanziare i progetti di Coppola; 2) che la critica europea (in particolare quella francese) si è dimostrata molto più calorosa e amichevole verso i suoi ultimi lavori.
E da questo si capisce piuttosto bene perché Coppola abbia dovuto mettere da solo i soldi della produzione di Megalopolis. Solo che, per un progetto tanto ambizioso, non sarebbero bastati i circa 5 milioni di dollari investiti in Segreti di famiglia o in Twixt. Secondo le ultime stime, il film è costato intorno ai 100 milioni, a cui vanno aggiunti circa 40 milioni di spese di promozione e marketing. Coppola ha stanziato l’intera cifra, essendo costretto a vendere anche parte dei suoi vigneti in California, perché nessuno studios ha voluto finanziarlo.
Come se non bastasse – perlomeno qui in Italia – Megalopolis si sta facendo notare anche per una dolorosa comparsata di Coppola in televisione, nel programma Domenica In condotto da Mara Venier. Dolorosa per lui e anche per il pubblico a casa, dal momento che si è conclusa con un invito della presentatrice ad andare a vedere in sala Metropolis, confondendosi grossolanamente con il capolavoro muto di Fritz Lang del 1927 e suscitando un’espressione di rassegnazione sul volto del regista.
Probabilmente è quindi il resoconto di questa odissea produttiva ciò che in futuro ricorderemo di più di Megalopolis: la straordinaria caparbietà di un uomo che, con costanza e determinazione, decide di scommettere tutto su un progetto a detta di molti fallimentare. Dato atto alle straordinarie ambizioni del regista, Megalopolis è però un film che risente di uno sviluppo così lungo, e di conseguenza, di una struttura così poco omogenea intorno a un solo nucleo tematico.
L’ambientazione è quella di “New Rome”, una sorta di New York sull’orlo di una grave crisi sociale. Nella metropoli c’è un radicato senso di decadenza (architettonica, oltre che morale) e le personalità più importanti discutono di come rilanciare l’immagine del centro urbano.
I due protagonisti si occupano proprio di questo: da una parte c’è Cesar Catilina (interpretato da Adam Driver), un brillante architetto che ha inventato un incredibile materiale resistente all’usura del tempo, materiale che vuole usare per costruire una comunità del futuro chiamata, appunto, Megalopolis.
Dall’altra c’è il corrotto sindaco Franklin Cicero (Giancarlo Esposito), convinto che il denaro per ricostruire la città possa essere investito meglio nell’apertura di un casinò, considerato una fonte di reddito sicuro rispetto alla volatilità di un quartiere residenziale.
I due non sono divisi solo su come ricostruire la città: Catilina è infatti depresso per il suicidio della moglie, di cui si sente responsabile, e Cicero è stato il procuratore che ha indagato sul caso, esasperando il senso di colpa di Catilina.
Ovviamente ci sono anche altri personaggi “presi in prestito” dalla Roma antica e calati nella New York contemporanea: Hamilton Crasso (Jon Voight), che è alleato di Catilina, e Clodio (il redivivo Shia LaBeouf), che è interessato alla fidanzata di Cesar Catilina. Inoltre, il protagonista è in grado di fermare il tempo. E in questi frangenti, soltanto una persona è in grado di muoversi come se nulla fosse, e cioè la figlia di Cicero, Julia (Nathalie Emmanuel), che presto entrerà nelle grazie di Catilina.
Il centro del film muta varie volte, come se durante la lavorazione Coppola non avesse mai le idee chiare in fase di sceneggiatura e fosse stato costretto a mettere mano più volte allo script per indecisione artistica.
Ci sono sequenze che sono autentiche e in grado di comunicare efficacemente uno dei nuclei del film: il tema del decadimento della res pubblica. Ad esempio, Catilina in una scena sta attraversando la città in auto. Durante il tragitto, comincia a immaginare, forse a ricordare, le statue che ornavano le vie, e che si immagina crollino al suo passaggio in auto. Sequenze immaginifiche come questa finiscono però per essere schiacciate in mezzo ad altre sequenze, troppo lunghe, prive di qualsiasi intento che non sia compiacere Coppola stesso.
In una di queste scene esasperanti, ad esempio, Catilina ha un momento di turbamento e osserva la propria immagine riflessa in uno specchio. A un tratto, in quella che sembrerebbe una specie di epifania di sé stesso, l’uomo si estrania a tal punto dalla realtà circostante che alla figura nello specchio spuntano cinque braccia; una sequenza tanto visivamente impagabile quanto inutile dal punto di vista narrativo.
Altre volte, invece, Coppola dimentica delle scene che servirebbero. Più di una volta, manca il connettivo logico tra un’azione e l’altra, e anche alla seconda visione, non è chiaro perché accadano determinate cose e non altre. Certo, questo non sarebbe un difetto se ci trovassimo di fronte a un film di David Lynch, in cui è centrale il tema dell’inconscio, o a una fantasia freudiana di Federico Fellini; due registi che hanno fatto della mancanza di connettivi logici un punto di grande fascino delle loro pellicole. Ma non è questo il caso di Megalopolis: un film poco lucido e razionale, la cui storia avrebbe invece bisogno di razionalità e lucidità.
Per fare un altro esempio, a un certo punto la vicenda della prima moglie di Catilina assume un valore narrativo pregnante, e il film sembra arrivato a un momento di svolta. Tuttavia, già dalla sequenza successiva, Coppola sembra dimenticarsi di questa sottotrama per concentrarsi su questioni che ritiene più importanti.
La sensazione più diffusa tra chi ha visto il film è che, a venti minuti dalla fine, a nessuno interessi della sorte dei personaggi (l’ha sostenuto, ad esempio, il critico Brian Tallerico). In effetti, più che una compiuta opera narrativa, Megalopolis si presenta come un collage di immagini, ritagli, appunti per un corso di storia romana, e persino qualche barzelletta.
Né Catilina né Cicero sono personaggi tridimensionali, ma tuttalpiù degli archetipi, e dovrebbero essere funzionali a un messaggio di qualche tipo. Ce lo suggerisce una sequenza di forte impatto, in cui una folla inferocita decide di assediare il palazzo del municipio. Siamo al culmine delle discussioni tra Catilina e Cicero. Coppola paventa il rischio che le persone in difficoltà non accettino le lentezze della democrazia di fronte alle emergenze. E quindi, proprio come a Roma, che si chiami un dittatore per risolvere la situazione. Il regista è chiaramente contrario a questa soluzione, perché Clodio, il “quasi dittatore”, è presentato come un personaggio malvagio, debole e spinto da motivazioni abiette, come l’invidia e la lussuria.
Questo avrebbe potuto essere lo sviluppo centrale del film, un invito all’unità della politica americana e il rifiuto della violenza. Anche perché guardando al contesto della politica americana in cui si arriva a sparare a un candidato alla presidenza, o diventa accettabile che questi dica “Sarò un dittatore solo per un giorno”, il paragone con la svolta autoritaria (con cui finì la repubblica romana) avrebbe potuto essere molto calzante. Invece rimane una nota, un appunto in un film così saturo di spunti di riflessione da non riuscire a comunicarne nessuno.
Megalopolis è in definitiva un film in cui tutto sembrerebbe avere un valore, ma nulla importa per davvero. Coppola ha dedicato così tanto tempo e lavoro a questo film, ha pensato così a lungo a cosa avrebbe voluto dire, che nel momento fatidico gli si è seccata la gola. Come direbbe Guido Anselmi, il regista protagonista di 8½ di Fellini, «non ho proprio niente da dire, ma voglio dirlo lo stesso.».
Articolo di Matteo Dodero