«Oceans rise, empires fall, next to Washington they all look small.»
Non è solo una frase applicabile a tutti i presidenti americani, ma è il commento che nel musical Hamilton fa il re britannico Giorgio III, appena appresa la notizia della successione da George Washington al suo vice uscente John Adams.
In effetti insediarsi dopo il principale padre fondatore degli Stati Uniti non dev’essere stato semplice, ma si può affermare che l’eredità di un presidente uscente, positiva o negativa che sia, rappresenti sempre una pesante ipoteca su chi gli succede – specialmente se quest’ultimo è il suo ex-vice.
Si tratta di un incarico meno desiderabile di quanto si possa pensare di primo acchito: permette relativamente poca proattività, contemplando peraltro la possibilità di deleghe particolari la cui esecuzione è limitata proprio dai ristretti poteri del vicepresidente. È quanto accaduto a Kamala Harris, che durante l’amministrazione Biden si è dovuta ufficialmente occupare d’immigrazione.
La carica di vice uscente pone dunque chi la ricopre, qualora si candidi a essere il nuovo presidente, in una posizione scomoda: quella di chi ha nei fatti avuto poca libera iniziativa nell’amministrazione, ma che all’immagine di questa si trova irrimediabilmente legato; quella di chi deve al contempo difendere i risultati del presidente uscente e marcarne una certa distanza, a seconda della sua popolarità.
Anche così sta venendo spiegata a caldo la sconfitta di Harris alle elezioni dello scorso 5 novembre: il leader dei senatori repubblicani McConnell ha descritto quanto avvenuto come un referendum su Biden; l’ombra ingombrante dell’anziano presidente è rimasta pendente sulla campagna estiva e autunnale di Harris, a partire dalla convention.
A ottobre gli sforzi dei due sembravano concertati, nell’ottica di mantenere equilibrio fra lealtà e autonomia della vice nei confronti di Biden; verso fine mese, tuttavia, sono emersi i ripetuti rifiuti di Harris di comparire insieme al presidente, soprattutto a seguito dello spiacevole commento di Biden sugli elettori trumpiani paragonati a spazzatura.
Questo non assolve Kamala Harris, sia perché durante la sua vicepresidenza non ha avuto del tutto le mani legate, sia perché in campagna elettorale sua era la responsabilità di distanziarsi credibilmente da Biden: se dopo le elezioni Cecilia Sala ha ricordato il suo «chiaramente non sono Joe Biden», Francesco Costa rimarca come si tratti di una differenziazione puramente anagrafico-antropologica, che poco ha di politico. Sui contenuti, anzi, Harris ha ammesso che «non c’è una cosa» che avrebbe fatto diversamente da Biden (salvo includere un repubblicano nel gabinetto, ha poi aggiunto).
Se però, come si è detto, la posizione di vice uscente candidato a presidente pone difficoltà intrinseche, come ha agito chi ha ricoperto questo ruolo prima di Harris?
Mentre la dinamica di un ex-avversario alle primarie che viene scelto come vice dal vincitore è tipica, se non una prassi, meno casi ricadono nella fattispecie opposta: l’ex-vice che decide di succedere al proprio presidente, talvolta correndo contro di lui.
Se ne può dunque tentare una panoramica retrospettiva, concentrandosi soprattutto su quei vice uscenti che poi hanno effettivamente vinto le primarie del proprio partito, se non proprio le presidenziali.
Pence, vice di Trump
Nonostante avesse inizialmente sostenuto il suo sfidante Ted Cruz alle
primarie, Pence nel 2016 è stato scelto da Trump come candidato vice. Durante
l’amministrazione è stato in realtà piuttosto fedele al presidente anche
ideologicamente, se
non più radicale di lui – quando però ha deciso di non sostenere le false
notizie sui brogli del 2020 e il tentativo insurrezionale trumpiano (non chissà
che frattura politica, piuttosto la minima decenza istituzionale), Trump l’ha
mollato.
Comprensibilmente, dopo che durante l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021 i trumpiani hanno inneggiato all’impiccagione di Pence, quest’ultimo si è candidato contro Trump alle primarie del 2024 – invano.
Biden, vice di Obama
Nel 2008 era stato un suo competitor alle primarie, ma Obama lo
scelse come vicepresidente. Per le elezioni del 2012 si
valutò brevemente di sostituirlo con Hillary Clinton, ma poi il progetto
venne accantonato e la coppia si consolidò nel secondo mandato: nel 2016, il
loro rapporto amicale si era ormai cristallizzato come quello di un bromance.
Nel 2016 sarebbe stato uno dei candidati naturali alla successione di Obama (che aveva allora un ratingdel 53%), ma decise di non correre soprattutto per via della morte del figlio Beau. Quando l’ha fatto nel 2020, pur negando di essere «un terzo Obama» e criticando quest’ultimo sull’Afghanistan, Biden ha basato molto della propria campagna sul riallacciarsi all’eredità obamiana dopo l’era di Trump – anche troppo, secondo il Washington Post.
Bush Sr., vice di
Reagan
I due si erano già trovati a competere l’uno contro l’altro alle primarie
repubblicane del 1980, ma il vincitore Reagan aveva scelto Bush come proprio
vicepresidente per due mandati consecutivi. Nel 1988 il presidente uscente godeva di una popolarità
intorno al 63%, perciò Bush ebbe buon gioco a presentarsi come il continuatore delle sue politiche, se
non per un vago
riferimento a «una nazione più gentile e amichevole». E infatti vinse.
Ford, vice di Nixon
Non fu invece una saggia scelta quella di Ford: era divenuto vicepresidente
nel 1973, nel pieno del mandato di Nixon,
per via delle dimissioni del vice eletto (con la prima applicazione del 25°
emendamento); poco dopo, lo scandalo Watergate
– che dimostrò come l’amministrazione avesse fatto spiare i Democratici–
costrinse Nixon stesso alle dimissioni, portando Ford alla presidenza nel 1974.
Ford ultimò solamente il secondo mandato di Nixon: nonostante l’impopolarità del presidente dimissionario, il suo ex-vice gli concesse la grazia. Questo fece perdere oltre 20 punti percentuali al rating di Ford, restando una spada di Damocle quando questi si ricandidò nel 1976, perdendo contro il democratico Carter.
Nixon, vice di
Eisenhower
Era stata la convention repubblicana (che nel 1952 ancora sceglieva
il ticket presidenziale, in assenza delle odierne primarie) a selezionare Nixon
come candidato vice di Eisenhower.
Al momento della ricandidatura di quest’ultimo nel 1956, i suoi momentanei dubbi sul proprio vice e l’esperienza di Nixon come de facto presidente durante una crisi cardiaca di Eisenhower contribuirono a far accarezzare al primo l’idea di candidarsi lui stesso contro l’ex-generale.
L’idea rientrò e Nixon venne rieletto vice di Eisenhower. Nel 1960 fu il naturale candidato dei repubblicani, presentando una campagna molto incentrata sulla continuità con l’amministrazione uscente (approvata da quasi il 60% della popolazione): gli slogan Experience countse Peace, experience, prosperity; l’iniziale tratteggio dello sfidante Kennedy come inesperto.
Nixon tenne comunque a marcare distanza da Eisenhower su alcuni temi come welfare e difesa, e più informalmente sulla questione afroamericana; col senno di poi, c’è chi ipotizza che abbia pigiato un po’ troppo sul pedale del distanziamento, senza sfruttare appieno i risultati economici della sua amministrazione. Vi fu persino uno scherzoso commento di Eisenhower sull’ininfluenza di Nixon come vicepresidente, che venne sfruttato dai Democratici.
E infatti quell’anno vinse Kennedy, mentre Nixon sarebbe tornato (vincendo) nel 1968.
Il primo Novecento
Fra i candidati alle primarie repubblicane del 1920, Coolidge divenne invece il vice dell’inaspettato vincitore Harding.
Quando quest’ultimo morì d’infarto nel 1923, Coolidge ne portò a termine il
mandato; l’eredità di Harding era in parte negativa, a causa di alcuni scandali legati alle nomine del
defunto presidente all’interno dell’amministrazione. Eppure Coolidge decise inizialmente
di conservarle; ma una volta vinte le elezioni del 1924, nell’unico vero e
proprio mandato che fosse suo, il presidente dei ruggenti anni Venti
ne fece piazza pulita.
Comandante alla
Battaglia di San Juan Hill nel 1898, Theodore
Roosevelt privatamente criticava la poca bellicosità dell’allora presidente McKinley, che pure aveva
iniziato quella Guerra Ispano-Americana. Quando McKinley venne rieletto nel
1900, in ogni caso, scelse proprio Roosevelt come suo vice.
McKinley venne però ucciso da un anarchico poco dopo l’inizio del suo secondo
mandato, che venne portato a termine proprio da Roosevelt.
L’Ottocento
Quando Andrew Jackson venne rieletto nel 1832, scelse come vicepresidente Van Buren. Quattro anni dopo fu proprio Jackson a sceglierlo personalmente come suo successore, investitura di cui Van Buren giovò, venendo eletto anche come continuatore delle politiche del presidente uscente.
Nella propria amministrazione, in realtà, Van Buren si discostò dal suo predecessore sul tema del riconoscimento e dell’annessione del Texas schiavista, a cui il nuovo presidente era contrario.
Taylor venne eletto nel 1848, con il vice Fillmore: i due si scontrarono sui corollari del Compromesso del 1850, che riguardava le relazioni fra gli Stati schiavisti e quelli abolizionisti. Questo compromesso, proposto dal parlamento, venne osteggiato da Taylor, nonostante il parere favorevole del vice.
Poco dopo tuttavia il presidente morì improvvisamente, e gli successe Fillmore (che non riuscì a farsi ricandidare dal partito nel 1852).
Come Taylor, diversi altri vice uscenti tentarono invano di candidarsi a presidenti: Breckinridge provò a succedere a Buchanan nel 1860, perdendo contro i Repubblicani di Lincoln; il vice di quest’ultimo, Hamlin, si ricandidò alla posizione quattro anni dopo, venendo scaricato a favore di Johnson.
I padri fondatori
Alle prime elezioni
americane, quelle del 1788-1789, Washington venne sfidato da John Adams. Quest’ultimo proveniva dai
ranghi dei Federalisti (come Hamilton e Jay), il cui nome non deve trarre in
inganno: partendo da un grado di integrazione delle ex-colonie meno che federale, la loro proposta era di accentramento del potere nelle
mani del governo; a loro si opponevano i Democratici-Repubblicani (allora
uniti) più autonomisti, fra cui Thomas
Jefferson e James Madison.
Quelle elezioni furono vinte da Washington, mentre fu scelto Adams come vicepresidente. Nel 1796 Washington decise liberamente di limitarsi a due mandati (liberamente: il limite fu codificato con il 22° emendamento solo sotto Truman!), così Adams si candidò a suo successore, vincendo.
Come avrebbe sostenuto decenni dopo in una lettera, Adams era piuttosto critico del mito fondativo statunitense riassumibile nell’atto con cui «il parafulmine del Dr. [Benjamin] Franklin colpì il terreno e ne fuoriuscì il Generale Washington», vale a dire la «continua menzogna» della preminenza di Washington nella creazione degli Stati Uniti.
Con le stesse elezioni venne selezionato il vicepresidente, individuando il secondo arrivato alle presidenziali: venne così scelto Jefferson, nonostante le contrapposizioni ideologiche al nuovo presidente.
Adams si ricandidò nel 1804, ma non furono elezioni qualunque: oltre a essere le prime veramente bipartitiche e con un chiaro passaggio di consegne da una parte politica a un’altra, furono le prime a tenersi sotto il 12° emendamento, che divideva le elezioni del presidente e del suo vice (per evitare il ripetersi di un’amministrazione bicolore). Jefferson non doveva distanziarsi da Adams solo in quanto vice uscente, ma anche perché stava correndo contro di lui.
Jefferson recriminava ad Adams le sue alleanze internazionali (più filo-britanniche che filo-francesi) e il Sedition Act che vietava la calunnia nei confronti del governo (poi decaduto). Il presidente in realtà avrebbe preferito mantenere Jefferson come vice, per ricucire i rapporti fra i loro due partiti, ma quest’ultimo nutriva ormai sfiducia verso le nomine delle precedenti amministrazioni, oltre che per un centralismo che considerava «eretico».
Alla fine l’ebbe vinta lui, perché nel 1804 divenne il terzo presidente degli Stati Uniti d’America.