Giradischi è la rubrica dove vi consigliamo i dischi usciti nell’ultimo mese che ci sono piaciuti
GNX, Kendrick Lamar – recensione di Lorenzo Bogo
Per la seconda volta in due mesi un rapper di fama mondiale pubblica un album completamente a sorpresa. Per i fan di Kendrick Lamar, in particolare, questo ultimo disco è stato un vero e proprio fulmine a ciel sereno, non essendo stato preceduto da nessun tipo di annuncio. Ascoltando più volte GNX si può però intuire come, col senno di poi, non sarebbe stato così fuori luogo aspettarsi una nuova uscita del rapper californiano in questo periodo.
L’album è infatti per buona parte debitore, sia nel sound che negli argomenti trattai, delle vicende di questa estate, che hanno visto Lamar sfidarsi in un dissing con il rapper e producer canadese Drake. Molte tracce, come Squabble Up, Peekaboo e la ormai virale Tv Off, hanno un flow e dei beat che sono esplicitamente ispirati a e ricordano moltissimo (forse anche fin troppo) Not Like Us e gli altri singoli rilasciati nel periodo estivo.
Inoltre questo rappresenta fino ad ora l’album più breve di Lamar, della durata di 44 minuti, poco più della metà di altri suoi dischi che hanno segnato la storia dell’hip hop moderno, come Good Kid Mad City o To Pimp A Butterfly, che superavano ampiamente l’ora. Ciò potrebbe suggerire una realizzazione piuttosto rapida dell’opera, volta forse a cavalcare l’onda di fama generatasi dal dissing con Drake. Ma in ogni caso sarebbe sbagliato considerare questo album come un semplice seguito dei singoli più recenti: si trovano infatti anche brani (Man at the Garden e Heart pt.6) che rimandano a un Kendrick già conosciuto in passato, più affini alla sua natura di “conscious rapper”.
GNX riesce dunque a fare ciò che ogni album di breve-media durata dovrebbe fare in primo luogo, ossia intrattenere. E lo fa anche bene: I ritmi e le sonorità vivaci e il fluire dei brani rendono piacevole, semplice e mai noioso l’ascolto del disco. GNX è un album che farà facilmente appassionare i nuovi fan di Kenrick Lamar. Anche se potrebbe far storcere il naso a quelli di più vecchia data, abituati forse a opere più ispirate e complesse, non può che essere considerato un album degno del suo artista, e potrebbe forse segnare un punto di svolta nella sua carriera.
Pista Nera, Post Nebbia – recensione di Lorenzo Bogo
Quarta opera in studio del gruppo indie-rock padovano Post Nebbia, Pista Nera rispecchia forse tutto ciò che i fan si aspettavano da un loro nuovo disco, o quasi. Come gli album precedenti, infatti, anche questo si presenta come concept album: un tema ricorrente fa da filo conduttore, collegando concettualmente i vari brani e costruendo un discorso autoconclusivo. Se però negli scorsi lavori del gruppo il concept era piuttosto specifico, di immediata e semplice comprensione (in Canale Paesaggi si trattava dell’assuefazione digitale, mentre in Entropia Padrepio l’argomento centrale era la religione), qua è trattato in maniera più defilata, meno didascalica, ed è sicuramente più difficile da cogliere a un primo ascolto.
Nei testi riecheggia un costante senso di angoscia, di incertezza nei confronti del futuro, trattato di volta in volta con immagini differenti: a volte si fa ricorso al tema dei cambiamenti climatici (con particolare riferimento all’ambiente montano), altre volte al tema dell’alienazione nei confronti della società. Il messaggio finale può quindi essere interpretato liberamente dall’ascoltatore.
Dal punto di vista musicale, la band non si allontana significativamente dalle sonorità a cui ci aveva abituati, anzi. Le caratteristiche distintive dei Post Nebbia si accentuano, divenendo un vero e proprio marchio di fabbrica: chitarre e basso graffianti, abbondante uso di sintetizzatore, parole che sembrano cantate “a denti stretti”; il tutto assemblato in un mix piuttosto sporco e cacofonico, in linea con i messaggi racchiusi nei testi.
Pista Nera è in definitiva un album più complesso rispetto ai precedenti del gruppo, che richiede vari ascolti per essere compreso e apprezzato, ma che è in grado di coinvolgere l’ascoltatore, fornendo spunti di interpretazione sempre nuovi.
Small Changes, Michael Kiwanuka – recensione di Lorenzo Bogo
Less is more. Sembra essere questa la filosofia che fa da colonna portante al nuovo album di Michael Kiwanuka. Il cantautore britannico ripropone infatti un soul minimalista, ridotto all’essenziale, ma non per questo meno coinvolgente ed emozionante. La semplicità delle melodie e dei ritmi si avvale di incessanti ripetizioni e ostinati per conferire ai brani un crescendo di suoni ed emozioni. La traccia più esemplificativa da questo punto di vista è forse Rebel Soul, in cui una linea di piano, ridotta alle sue più semplici componenti, accompagna la sezione ritmica dall’inizio alla fine senza mai scostarsi.
A incrementare il crescendo vi è poi un abbondante utilizzo di archi, talvolta usati per creare un tappeto sonoro che accompagna alla chiusura dei brani. Anche la voce di Kiwanuka si rifà a uno stile minimal: non eccedendo mai in virtuosismi tecnici, rimane sempre delicata ma al contempo sicura e decisa. Non a caso lo stile canoro dell’artista britannico è stato accostato a quello di Bill Withers – probabilmente la maggiore ispirazione di questo disco.
Col suo stile pacato e rassicurante, Small Changes è un album che sa infondere tranquillità nell’ascoltatore, che potrà quasi sentirsi cullato dalla musica. Tuttavia la struttura ripetitiva delle tracce potrebbe rendere noioso l’ascolto a un orecchio abituato a composizioni più movimentate.