Lo scorso 3 dicembre 2024 è stato rappresentato presso il Piccolo Teatro Strehler lo spettacolo «La Repubblica», tratto dall’omonima opera di Platone. Il progetto, parte di una serie di eventi volti a celebrare il Centenario dell’Università degli Studi di Milano, è stato organizzato dalla Compagnia Università degli Studi – ARCUS Milano, il Teatro ATIR e l’Ateneo, sotto la regia di Omar Nedjari.
Fedelmente al testo platonico, il dialogo ha luogo in occasione di un simposio a casa di Polemarco, e la ricerca si origina con la realizzazione che, per rispondere all’iniziale domanda circa i premi che spettano nell’aldilà dopo aver vissuto una vita giusta, è necessario dapprima stabilire cosa sia la Giustizia.
Dopo un primo dibattito tra Socrate e Polemarco, dove quest’ultimo si fa portavoce della tesi secondo la quale la Giustizia coincide con la restituzione dei propri debiti e la venerazione degli dei, smentita attraverso la tecnica dell’elenchos da Socrate, irrompe in scena Trasimaco.
Questo personaggio ha un carattere molto deciso e risoluto, tanto da arrivare a provocare Socrate chiedendogli di smettere di dedicarsi alla mera confutazione degli altri, ma di chiarire che cosa intende per Giustizia; esprime poi la sua tesi accendendo il dibattito:
«il Giusto è ciò che conviene al più forte»
Secondo questa visione, soltanto l’ingiustizia può portare a una vita felice, ed essa viene biasimata “solo per paura di subirla, non di farla”; infatti, per esempio, quando un condottiero rientra in patria dopo aver sottomesso e assoggettato un’altra popolazione, viene elogiato, e alla sua morte sono celebrati funerali di stato.
A questo punto, per smentire la tesi di Trasimaco, si rende necessaria la Kallipolis, tesi puramente platonica che nell’opera originale viene esposta da Socrate; nello spettacolo, invece, il regista sceglie di far parlare in prima persona il personaggio di Platone stesso: vediamo infatti che nel corso dello spettacolo il personaggio di Socrate addirittura si addormenta, lasciando tutto lo spazio a Platone.
Scopriamo che nella società ideale della Kallipolis le persone verrebbero divise in tre classi determinate dalla loro disposizione naturale: i lavoratori, dall’anima bronzea concupiscibile, dediti alla produzione dei beni necessari; i guardiani, dall’anima argentea irascibile, dediti alla protezione della città; i filosofi, dall’anima aurea razionale, dediti al governo in quanto migliori.
Perché ciò possa essere messo in atto, sarebbe necessario stabilire un metodo educativo, la cosiddetta paideia, che convinca e inciti i cittadini a dedicarsi al solo perfezionamento delle loro proprie capacità, in virtù di un benessere collettivo generalizzato. Si presenta così, agli occhi dello spettatore, una sorta di teoria di proto-comunismo e proto-eugenetica, rappresentate in maniera molto coinvolgente attraverso delle coreografie con riferimenti ironici ma pungenti, all’attualità.
Fondamentali nel metodo educativo sopracitato sarebbero la ginnastica per i corpi e la musica per l’anima. Sarebbe necessario un particolare riguardo per la musica, che si articola in miti e favole: questi infatti, secondo Platone, danno una rappresentazione empia e diseducativa della realtà; spesso, i miti tradizionali mostrano divinità malvagie, uomini ingiusti al potere e paura per la morte. Invece, tali favole andrebbero censurate e dovrebbero esserne proposte di nuove, come per esempio il cosiddetto mito della nobile menzogna, che prevede delle anime a prevalenza d’oro, d’argento e di bronzo, per spiegare la divisione sociale a cui si è fatto riferimento prima.
Degna di menzione è la prima forma di uguaglianza che Platone a questo punto stabilisce tra uomo e donna, sempre grazie alla paideia. Nel discutere se la natura della donna sia in grado di compiere gli stessi incarichi degli uomini o meno, Trasimaco con una battuta maliziosa ribatte: «Ah lo stabilite voi?». Il regista, poi, per supportare la tesi platonica, sceglie di sfruttare la commedia di Aristofane «Donne in parlamento»:
«Quello che vogliamo stabilire veramente è che siamo cittadine, non possiamo garantire che saremo migliori degli uomini, ma di poter in ogni caso occupare i loro stessi posti.»
Al fine di spiegare meglio come mai sia proprio il filosofo a dover detenere il potere nella città ideale, viene messa in scena il mito della caverna. In questo mito, gli uomini vivono in una caverna, nell’oscurità, dove vedono solo delle immagini proiettate su un muro, convinti che siano la realtà.
Nel liberarsi, il filosofo lentamente realizza che quello che aveva visto prima era mera finzione e, uscendo dalla caverna, abitua gli occhi alla luce e inizia a vedere dapprima le ombre, poi i riflessi, e infine le cose stesse.
In seguito, ricordandosi dei suoi compagni nella caverna, decide di tornare indietro per tirarli fuori a loro volta. Il compito del filosofo, infatti, è proprio questo: ricercare il Bene, acquisirlo con fatica, e riportarlo a coloro che vivono “nell’oscurità della caverna”, facendoli uscire dalla loro condizione di ignoranza.
Interessante è l’attualizzazione, alla luce delle odierne problematiche, che viene lasciata intuire allo spettatore , attraverso la proiezione di immagini e video raffiguranti il fenomeno della massificazione dei social media. Spesso infatti, ci ritroviamo alienati di fronte a uno schermo, come gli uomini ignoranti della caverna, e preferiamo rimanere in quell’oscurità piuttosto che uscire alla luce del sole.
Finalmente, dallo stesso mito e dopo due lunghe ma suggestive ore di spettacolo e ben dieci libri di Platone, si deduce la risposta alla domanda iniziale: la Giustizia è proprio questo Bene, metaforicamente coincidente con il sole, che gli occhi faticano a guardare se dimorano al buio, ma che porta alla luce della verità per chi è disposto a guardarlo. Così lo spettacolo si conclude con una parafrasi di quella che è la poetica ed emozionante chiusa dell’opera stessa: