Avete mai visto una di quelle pubblicità che promettono la pancia piatta e il dimagrimento? Oppure siete mai entrati in una corsia di supermercato denominata “integratori” per scoprire quanti modi comodissimi esistono per perdere peso?
Probabilmente, se l’avete fatto, vi siete esposti a immagini che promuovono corpi tonici, magri e muscolosi (più nel caso degli uomini che delle donne). L’obiettivo è perdere peso, buttare giù i chili delle feste, sistemarsi per l’estate, avere la famosa pancia piatta. E in che modo farete questo cambiamento? Sentendovi in colpa. Far sentire in colpa le persone che hanno accumulato peso, per spingerle a comprare dei prodotti che sistemeranno il problema, è ancora troppo spesso la modalità con cui facciamo passare i messaggi legati alla salute. Questo accade anche nelle campagne di sensibilizzazione per l’obesità, in cui si punta a vittimizzare le persone con obesità, per spingerle ad attuare dei cambiamenti nei loro comportamenti alimentari.
Quindi funziona? Abbiamo perso peso grazie a questi messaggi?
La risposta è no. L’obesità è riconosciuta come patologia cronica e un problema di salute pubblica, che si basa su fattori genetici per il 25%, su fattori culturali per il 30% e su fattori ambientali per il 45%. In Italia si parla di 25 milioni di persone con obesità, molto probabilmente stigmatizzate per il proprio peso. Per arrivare a una diagnosi ci si basa spesso sul BMI, l’indice di massa corporea. Sebbene il BMI sia uno strumento utile per una valutazione iniziale, presenta dei limiti, perché non considera la reale distribuzione del grasso corporeo. Questo aspetto è cruciale, visto che l’accumulo di grasso ha una pericolosità diversa in base alla zona in cui viene accumulato.
Nelle società occidentali tendiamo a mitizzare i corpi magri, parlando di “diete per i chili di troppo”, categorizziamo i cibi in “buoni” e “cattivi” per la salute (demonizzando i carboidrati) e temiamo i periodi delle feste a causa dei pranzi abbondanti. A questo punto, stiamo ancora parlando di salute? La sensazione è che si utilizzi questo termine per nascondere uno stigma enorme che abbiamo nei confronti delle persone sovrappeso o con obesità, che sono viste come “sbagliate”, “pigre”, “golose”.
Ormai è noto come nel 2024 ci sia un culto ossessivo per la propria immagine corporea, alimentato dall’esposizione continua a contenuti che promuovono corpi magri e tonici. Nonostante possano sembrare innocue, immagini di questo tipo contribuiscono allo stigma e, di conseguenza, portano le persone sovrappeso o con obesità a un peggioramento della condizione psicologica e a un aumento del binge-eating. Quest’ultimo, in particolare, è un disturbo alimentare caratterizzato da episodi ricorrenti di abbuffate incontrollate, in cui una persona consuma una quantità di cibo significativamente maggiore rispetto a quella che la maggior parte delle persone consumerebbe nello stesso periodo e in circostanze simili.
Parlare di salute dovrebbe significare tenere conto di tutti i fattori che intervengono, e non soltanto del peso.
In ambito medico, ad esempio, si parla di dare la priorità a fattori come fare esercizio, avere un livello di stress sotto controllo, preservare la salute mentale, fare i controlli medici necessari, dormire abbastanza e bene, gestire le proprie emozioni, mangiare cibo che sia nutriente.
Tutti questi elementi sono collegati al peso, ma non lo mettono come esito centrale. Secondo l’ EASO (Associazione Europea per lo Studio dell’Obesità), infatti, si dovrebbe far passare il messaggio che tutte le persone hanno diritto alla salute, a prescindere dalla forma del loro corpo. L’obesità è una patologia molto complessa e non si può semplificarla parlando soltanto di peso, oppure idealizzando un certo peso e la condizione di magrezza come criterio di valutazione della salute.
Le condizioni di partenza sono diverse per tutte le persone, infatti lo stigma sociale legato al peso colpisce in modo diverso quando si è parte di una comunità marginalizzata rispetto all’essere “nella media”. Ad esempio nello studio di Washington, Johnson, Kendrick, Awab Ali, Tye, Sun e Stanford, si evidenzia come le persone della comunità black negli Stati Uniti considerino molto meno di prendere farmaci o di sottoporsi a operazione per la perdita di peso. Spesso, infatti, lo stigma è talmente persistente negli ambiti della vita, che le persone tendono a evitare i controlli medici, per paura di come verranno trattate dagli operatori sanitari.
Uno degli ostacoli per l’accettazione di corpi “non conformi”, secondo le persone con obesità, sono proprio gli operatori e le operatrici mediche.
In quanto persone inserite nella società sono anch’esse soggette ai bias e, di conseguenza, allo stigma che riguarda il peso. L’esito di questo atteggiamento, però, è che si minimizzino dei sintomi, perché spesso chi è in condizione di sovrappeso od obesità ottiene diagnosi che ritornano sempre alla perdita di peso e approfondiscono meno le sintomatologie rispetto a persone magre.
Altri luoghi critici per le persone sovrappeso o con obesità sono le palestre e i centri fitness, in cui i corpi sono estremamente esposti e spesso si tende ad evitarli, nonostante possano essere la strada per uno stile di vita più sano, perché (di nuovo) lo stigma legato al peso è molto forte. Passa dalle battutine negli spogliatoi alle occhiate, ma anche dalle immagini pubblicitarie, che promuovono corpi muscolosi con percentuali di grasso bassissime, che si rivelano appartenere ad atleti agonisti (o a nessuna persona in carne e ossa, quando vengono generati con le intelligenze artificiali generative).
Il concetto di thin privilege descrive i vantaggi sociali che le persone con corpi magri possono ricevere, rispetto a chi vive con sovrappeso o obesità. Le persone con corpi magri vengono scelte di più ai colloqui di lavoro e vengono preferite alle persone sovrappeso o con obesità in ambito relazionale, che sono viste come più “pigre”, meno volonterose, con meno disciplina e meno affidabili (ma la lista sarebbe lunga).
Tutti questi elementi contribuiscono a una minore diminuzione di peso effettiva delle persone in questione, perché lo stigma schiaccia la percezione che si ha di loro: non si viene più visti come persone, ma come espressione del proprio peso (si finisce con l’essere il proprio peso).
Per questo motivo l’EASO preferisce un approccio people-centered, che metta al centro la persona e il concetto di salute, parlando ad esempio di “persona con obesità” rispetto a “persona obesa”. Si stanno facendo moltissimi tentativi in questa direzione, in quanto gli approcci che sono stati applicati finora, legati alla colpevolizzazione, non hanno avuto gli effetti sperati; anzi, hanno avuto conseguenze negative sulla salute fisica e mentale delle persone che volevano curare.
Diversi Paesi hanno adottato misure particolari per cercare di arginare l’aumento delle persone con obesità.
Negli Stati Uniti esistono (a livello statale e non federale) le tasse sullo zucchero, quindi le bevande zuccherate hanno un sovrapprezzo per litro in base allo zucchero che contengono. A New York dal 2008 gli alimenti possiedono etichette con il numero di calorie degli alimenti nei ristoranti e nei supermercati. Tuttavia, in generale, questo approccio ha ridotto di pochissimo il consumo degli alimenti iper-calorici e, anzi, ha creato un punto di trigger per le persone che si stavano curando da un disturbo alimentare.
Nonostante la volontà benevola della sensibilizzazione sull’obesità, quindi, l’effetto che ha generato è stato l’opposto: sono aumentate le persone con obesità e sono peggiorate le loro condizioni fisiche e mentali. È necessario un cambiamento culturale e sistemico, con un approccio più inclusivo e centrato sulla persona. Investire nella formazione degli operatori sanitari e nel contrasto allo stigma può contribuire a migliorare sia gli esiti di salute fisica che quelli psicologici delle persone con obesità.