Del: 14 Gennaio 2025 Di: Michele Cacciapuoti Commenti: 0
Cecilia Sala è una giornalista esperta, obiettiva e necessaria

La Redazione di Vulcano augura a Cecilia Sala una pronta guarigione: speriamo di rivederla presto al lavoro, nella consapevolezza che un giornalismo serio, onesto e appassionato rappresenta uno strumento indispensabile per promuovere la comprensione e il miglioramento del nostro mondo.


I fatti

L’arresto della giornalista italiana Cecilia Sala in Iran, avvenuto il 19 dicembre 2024 ma reso noto soltanto il 27 dicembre, ha suscitato preoccupazione e mobilitazione a livello internazionale. 

Sala, oggi 29enne, reporter esperta di conflitti e nota per le sue inchieste in scenari di crisi (Iran, Cisgiordania, Ucraina), ha collaborato fin da giovanissima con importanti testate italiane e internazionali ed è attualmente inviata per il quotidiano Il Foglio e per la testata e podcast company Chora Media.

Si trovava a Teheran con un regolare visto giornalistico rilasciato dal governo iraniano – presieduto dal neo-eletto Presidente Masoud Pezeshkian: 

ma alla vigilia del suo ritorno in Italia, alcuni membri del corpo paramilitare dei Pasdaran (o Guardiani della Rivoluzione) l’hanno prelevata dalla sua camera d’albergo e trasferita nella prigione di Evin, nota per la detenzione di dissidenti politici, giornalisti e cittadini stranieri.

L’arresto, inizialmente taciuto nella speranza di poter così agevolare le trattative per una rapida scarcerazione di Sala, è stato infine ufficializzato dal Ministero degli Esteri italiano e confermato dal governo iraniano, che ha parlato di una generica «violazione delle leggi della Repubblica Islamica», senza fornire dettagli su alcun concreto capo d’accusa.

Sin dalle prime ore, la Farnesina si è quindi attivata per chiarire la situazione e ottenere il rilascio della giornalista. L’ambasciatrice italiana a Teheran, Paola Amadei, ha visitato Sala in carcere, confermando che si trovava in buone condizioni di salute. Tuttavia, la mancanza di informazioni chiare sulle reali ragioni del suo arresto – ben presto considerato un vero e proprio sequestro di persona –  ha alimentato timori su una possibile detenzione prolungata e sulle disumane condizioni di detenzione cui Sala – come ogni altro prigioniero di Evin – era sottoposta.

Nei giorni successivi all’arresto, la mobilitazione in Italia e all’estero è cresciuta. 

Decine di giornalisti e attivisti si sono riuniti davanti all’ambasciata iraniana a Roma per chiedere la liberazione di Sala. Sui social media, anche una campagna con l’hashtag #FreeCeciliaSala è diventata virale, con numerosi esponenti del mondo politico e culturale che hanno espresso solidarietà alla giornalista.

Dopo giorni di incertezza e intense trattative diplomatiche condotte dal governo italiano e, dall’inizio di gennaio, dalla stessa Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, l’ 8 gennaio 2025 la giornalista è stata infine rilasciata e ha potuto fare ritorno in Italia. Il governo italiano ha accolto con sollievo la notizia, sottolineando l’impegno diplomatico che ha portato alla soluzione del caso e ringraziando le autorità iraniane per la collaborazione.

All’arrivo in Italia, Sala ha dichiarato di stare bene e ha ringraziato tutti coloro che si sono mobilitati per la sua liberazione. Tuttavia, ha anche sottolineato la necessità di continuare a vigilare sulla libertà di stampa e sulla protezione dei giornalisti che operano in contesti difficili. Anche molte organizzazioni per la libertà di stampa hanno sottolineato come il caso Sala rappresenti solo l’ultimo di una lunga serie di arresti arbitrari di giornalisti in Iran. La vicenda continua a suscitare dibattito e richieste di maggiore protezione per i reporter impegnati in territori ostili.


Gli attacchi contro Cecilia Sala

L’arresto e la detenzione arbitrari di Sala non hanno tuttavia scatenato soltanto un’ondata di solidarietà mediatica e social, bensì anche attacchi personali rivolti contro la giornalista da personaggi pubblici tanto quanto da persone comuni, bersagliando sia la sua professionalità – se ne sono dette tante: troppo giovane, donna, priva di esperienza, giunta in Iran senza la preparazione e le cautele necessarie, qualcuno ha persino contestato la sua decisione di truccarsi – sia il suo modo di fare giornalismo e le (presunte) opinioni espresse nei suoi articoli e nel suo celebre podcast, Stories

Tra le altre accuse, quella di essere «sionista», presumibilmente addebitata a Sala per via dell’orientamento esplicitamente filo-israeliano del Foglio: d’altro canto, è sufficiente approfondire il suo lavoro, leggere i suoi articoli, ascoltare la sua voce che racconta – spesso sul posto e interagendo con i protagonisti delle vicende – per rendersi conto che Sala non si è mai espressa in favore delle azioni criminali del governo israeliano e tantomeno delle comunità ebraiche ortodosse colpevoli di colonizzare illegalmente, in aperta violazione del diritto internazionale, i territori palestinesi. 

«Ho intervistato Imad Abu Awad, che dopo il 7 ottobre ha passato nove mesi in una prigione israeliana senza accuse» denunciava il 3 ottobre 2024 sul suo profilo Instagram e nella puntata n.583 di Stories

«Imad è un giornalista e un analista per Al Jazeera, vive a Ramallah, dove alla fine di settembre le autorità israeliane hanno chiuso la redazione del canale qatariota, il più seguito di tutto il mondo arabo. In prigione Imad ha perso diciotto chili, il pasto era una tazzina da caffè piena di riso condito. Erano in quattordici in una cella per sei persone. In quasi un anno ha potuto vedere il suo avvocato una sola volta e la sua famiglia mai». 

E poi, aggiungeva, quando alla fine Imad era stato liberato, «il ministro dell’estrema destra che simpatizza per il terrorismo ebraico Ben Gvir ha protestato». 

Ancora, il successivo 22 ottobre, Sala dedicava la puntata n.636 di Stories e un ulteriore post al criminale Piano dei generali, elaborato dall’ex generale israeliano Giora Eiland e volto a realizzare «una sequenza di quasi tutti i crimini che un esercito può commettere in guerra: dice che Gaza deve diventare un luogo “che non consente la presenza di vita umana”, un obiettivo da raggiungere tramite la creazione “di un disastro umanitario e di un’epidemia”. E che tutti i suoi abitanti vanno spinti con la forza verso l’Egitto, in un sogno di pulizia etnica esplicito». 

Potremmo proseguire oltre, per molto tempo, ma forse non sarebbe abbastanza per strappare alla propria bolla di disinformazione e ideologia chi non è disposto a fare la fatica di soffermarsi, capire, approfondire il lavoro di reporter che, come Cecilia Sala, si mettono a disposizione per vedere e raccontare, a rischio della propria vita.

Il termine «sionista» – spesso inserito nell’odierna locuzione «agente sionista» quasi che non si possa argomentare un’opinione contro il sionismo senza dover impiegare termini e concetti para-cospirazionisti (come fatto di recente dal noto chef Rubio) – è stato inoltre utilizzato allo scopo di minimizzare la situazione di Cecilia Sala.

Posta l’obiettività giornalistica di Sala che, come già evidenziato, si è recata negli ultimi anni in svariati scenari di guerra e crisi, facendosi sempre portavoce delle violazioni dei diritti umani indipendentemente da chi le compie e da chi le subisce, in quale modo una qualunque accusa relativa al suo orientamento politico e alla validità del suo lavoro  avrebbe dovuto lenire la gravità della sua detenzione o persino giustificarla, nonostante il fatto che, dall’inizio alla fine, non è stata supportata da nessuna accusa circostanziata e si è qualificata dunque come arbitraria?

E che dire delle condizioni di detenzione disumane e degradanti cui Sala è stata soggetta? Isolamento forzato per oltre 20 giorni con quasi nessun contatto umano, privazione degli occhiali e delle lenti da vista – insostenibile, come ben sa chiunque soffra di difetti visivi importanti –, una luce accesa h24 per ostacolare il riposo e far perdere la cognizione del tempo, impossibilità di ricevere vestiti puliti e articoli per l’igiene personale.

Serve essere sempre d’accordo con tutto ciò che dice, con la maggior parte di ciò che dice, con anche solo una cosa di ciò che dice un giornalista, per ritenere ingiusto il suo arresto motivato ideologicamente e/o la sua presa in ostaggio a scopo di trattative? O tutto questo trascende invece il posizionamento politico?

Sala è inoltre finita nell’occhio del ciclone per un post risalente al 2015, nel quale aveva criticato la gestione da parte italiana della vicenda dei due “marò” – Massimiliano Latorre e Salvatore Girone – arrestati in India per il presunto omicidio di due pescatori.

«Ai tempi dei marò diceva di lasciarli lì»: questa frase è così rimbalzata sui social ed è stata rilanciata da alcune personalità pubbliche. Anche se non è intuitivo, accusare l’avversario di ipocrisia viene spesso considerato una sottospecie della fallacia logica ad hominem, che concentra cioè l’attacco sulla persona e non sulla sua tesi. Questo non significa che non bisogna accusare un avversario se ipocrita, beninteso, significa solamente che tale critica, per quanto potenzialmente giusta, non contribuisce a smontare la tesi opposta, che potrebbe essere sostenuta anche da un avversario più coerente.

Ciò premesso, e premessa l’insensatezza di valutare la coerenza fra l’opinione espressa da Sala in passato e la sua richiesta di essere liberata dalla propria cella in isolamento, l’ipocrisia qui nemmeno c’era. 

Cecilia Sala è stata arrestata in modo arbitrario per fini politici, senza accuse formali e circostanziate; Latorre e Girone erano invece accusati di aver commesso un duplice omicidio  (stanti comunque le criticità del caso e l’assoluzione italiana del 2022).

Ancora una volta, i “marò” sono stati riesumati per gettare fumo sulla questione, per relativizzare indebitamente, per fare cioè del benaltrismo. O meglio, per fare quello che in inglese viene definito whataboutism, in italiano e-allor-ismo: assommare questioni l’una accanto all’altra, al solo scopo di dirne una in più dell’interlocutore e avere l’ultima parola.

Perché l’impressione è che parte di questi commentatori abbiano goduto,  banalmente, nel comportarsi da bastian-contrari di fronte alla condivisione della preoccupazione per Cecilia Sala; e che un’altra parte di loro credesse davvero che il trattamento cui Sala è stata sottoposta fosse almeno parzialmente giustificabile, come una sorta di “contrappasso” per un suo supposto posizionamento politico; nel migliore dei casi, una “disgrazia” che però si sarebbe “cercata” (come se non fosse lì come giornalista, in primis per noi).

Sconforta dover leggere, spesso in ambienti che considerano se stessi progressisti, che l’Iran non sia un regime e che abbia agito correttamente; sconforta, ma non stupisce. 

Perché è chiaro da tempo che qualcuno, a sinistra, persegue tanto il ragionamento aprioristico e manicheo del “noi contro loro” da credere davvero alla legittimità ideologica dell’ “asse della resistenza”, che il sostegno alla popolazione palestinese non possa prescindere da quello all’Iran, che un regime teocratico e repressivo e il terrorismo di Hamas che esso sostiene siano una condizione necessaria (falso), sufficiente (falso) o in qualche modo utile (falso) ad evitare la sofferenza che Israele le sta criminalmente e impunemente inferendo.

Chissà come, si tratta spesso delle stesse persone che si raccontano più sveglie e indipendenti, meno cieche e asservite degli “iper-atlantisti”, per poi usare a propria volta come unico criterio di ogni proprio posizionamento gli Stati Uniti, invece dell’unico che conta, cioè il merito della questione: una giornalista italiana detenuta in quanto tale, giornalista o italiana.

O, ancora, il criterio dei diritti umani violati: dai governi e dalle forze militari di Israele e dell’Iran, degli Stati Uniti e della Russia, dai militanti di Hamas e da molti altri attori dello scenario internazionale, senza distinzione e in egual misura.

D’altra parte anche la destra non ha esitato a scatenarsi contro Sala: non soltanto rievocando il già citato episodio dei “marò” ma anche attaccando la giornalista per la sua presunta inesperienza e per la fiducia da lei mal riposta nell’ “apertura” del regime iraniano. 

«Cecilia Sala, “l’errore di molti giornalisti occidentali compresa lei”» titolava pochi giorni fa La Verità, quotidiano italiano noto per le tesi complottiste in materia di vaccini, per il negazionismo climatico e per l’orientamento spiccatamente islamofobo e razzista.


La vittimizzazione secondaria 

Come se non bastasse, anche da Feltri e Vannacci sono arrivati commenti sul caso: i due hanno a propria volta sostenuto che Sala, al corrente della situazione politica in Iran, abbia corso dei rischi inutili e non abbia preso le precauzioni necessarie, come a dire che la prigionia sia stata un po’ anche colpa sua. 

Se fosse rimasta in Italia, non sarebbe accaduto nulla, no?

Peccato che Sala sia una giornalista esperta, preparata, seria. Peccato che fosse tornata in Iran solo dopo aver chiesto e ottenuto un visto giornalistico e avendo pianificato con accuratezza il proprio soggiorno. Peccato che fare la giornalista significhi proprio andare nelle zone più difficili per documentare ciò che sta accadendo e che le voci come quella di Sala siano fondamentali per avere una testimonianza diretta

D’altro canto, interventi come questi non sono una novità: ad ogni caso di cronaca che coinvolge una donna o una persona discriminata, una parte dell’opinione pubblica si schiera immediatamente, sostenendo la tesi secondo cui l’accaduto, qualunque esso sia, si spieghi e dunque giustifichi alla luce di una o più responsabilità della vittima stessa

Colpevolizzare le vittime è un tormentone che torna sempre: nei casi di stupro, femminicidio, revenge porn. 

Di recente anche il caso di Ottavia Piana, speleologa rimasta intrappolata in una grotta, si è risolto velocemente con lo stesso esito: “se l’è cercata”, nonostante il lavoro di una speleologa sia proprio studiare il sottosuolo di persona, nell’interesse della scienza e della collettività.

Alle donne viene sempre chiesto di non prendersi troppo spazio, di stare tranquille, a casa, dove saranno protette e non accadrà niente: per quanto sembri una mentalità retrograda, essa emerge chiaramente in commenti come questi. Qualsiasi passo fuori dal tracciato rappresenta una colpa, uno spunto perché qualcuno ti dica che, fossi stata “normale”, fossi stata al tuo posto, non sarebbe successo nulla. 

Si utilizza ciò che in retorica è definito argomentum ad hominem: per contestare l’interlocutore si sceglie cioè di mettere in discussione alcune sue caratteristiche personali che non hanno nulla a che vedere con il fatto di cui si sta parlando. Il tutto rientra in un’idea più generale, quella del mondo giusto, un bias cognitivo che ci fa pensare che le cose brutte accadono a persone che commettono errori e le cose buone soltanto a persone gentili. 

Articolo di Michele Cacciapuoti, Viviana Genovese, Alice Pozzoli, Giulia Riva, Jessica Rodenghi

Michele Cacciapuoti
Laureato in Lettere, sono passato a Storia. Quando non sto guardando film e serie od osservando eventi politici, scrivo di film, serie ed eventi politici.
Viviana Genovese
Studentessa di Lettere Moderne e chiacchierona per natura. La curiosità mi guida verso ciò che mi circonda, e la parola scritta è lo strumento di espressione che preferisco.
Nutro uno smisurato amore per i viaggi, il mare e l'arte in tutte le sue forme; ma amo anche esplorare nuovi mondi attraverso letture e film di ogni tipo, immergendomi in diverse realtà e vivendo più vite.
Giulia Riva
Laureata in Storia, sto proseguendo i miei studi in Scienze Politiche, perché amo trovare nel passato le radici di oggi. Mi appassionano la politica e l’attualità, la buona letteratura e ogni storia che valga la pena di essere raccontata. Scrivere per professione è il mio sogno nel cassetto.
Jessica Rodenghi
Jessica, attiva nel mondo e nelle società, per fare buona informazione dedicata a tutti e tutte.
Alice Pozzoli

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