Del: 11 Gennaio 2025 Di: Redazione Commenti: 0
De André, un percorso tra idealismo, lotta e mare

Ogni 11 gennaio la nostra mentre non può che ritornare al 1999 quando ci lasciò uno dei più grandi, se non il più grande cantautore italiano, Fabrizio De André.

Nato a Genova nel quartiere della Foce il 18 febbraio del 1940 da una classica famiglia agiata si dimostra intollerante però fin da subito ai rigidi schemi e alle convenzioni borghesi incarnate dal padre. All’età di 18 anni se ne va da casa a causa del difficile rapporto col padre. Inizialmente si iscrive a medicina, passa poi a lettere ed infine opta per giurisprudenza

A 6 esami dalla laurea decide tuttavia di seguire definitivamente il cammino della musica.

Fra i modelli musicali più determinanti per il cantautore genovese vi è senz’altro Georges Brassens, uno dei maggiori esponenti della canzone d’autore francese. Leitmotiv nella composizione di Brassens sono i temi della lotta all’ipocrisia borghese e alle convenzioni sociali, nonché le posizioni in favore degli emarginati e contro qualsiasi figura incarni l’ordine costituito, come i giudici. Prendendolo come esempio, De André si avvicina alle idee anarchiche per cui simpatizzerà per tutta la vita, iscrivendosi così alla fine degli anni ’50 alla federazione anarchica italiana di Carrara. 

Nel 1961 incide la sua prima canzone, La ballata del Michè, che racconta il suicidio di Miché in seguito all’omicidio da lui commesso contro chi voleva “rubargli la sua donna” e la conseguente condanna a 20 anni di carcere. Il protagonista del brano, trovando insopportabile la separazione dalla donna amata, decide di porre fine alla sua vita. 

Già nel suo primo testo si trovano i motivi ricorrenti nella sua produzione: una sostanziale comprensione nei confronti delle “vittime” e la critica al “sistema Chiesa” che non ammette misericordia e pietà verso un suicida. 

La chiesa e la cristianità sono un tema che ricorre spesso nella produzione di De André: egli si dimostra molto vicino alla portata valoriale del messaggio evangelico quanto distante e duramente avverso alla Chiesa intesa come clero e come istituzione. 

Due canzoni emblematiche sono Il pescatore e Il testamento di Tito. Nella prima la chiave sta proprio nel perdono di chi si è macchiato di un peccato imperdonabile come un omicidio: infatti l’assassino si reca dal pescatore chiedendogli pane e vino, simboli dell’eucaristia e dunque del perdono stesso. 

Di segno opposto Il testamento di Tito in cui De André mette in bocca a Tito, uno dei due ladroni crocifissi insieme a Gesù, una riscrittura dei dieci comandamenti dal suo punto di vista.

Ne viene fuori una critica sferzante contro l’inflessibilità della dottrina, ad esempio quella sessuale nel sesto comandamento:

Non commettere atti che non siano puri  cioè non disperdere il seme
Feconda una donna ogni volta che l’ami
Così sarai uomo di fede Poi la voglia svanisce e il figlio rimane
E tanti ne uccide la fame
Io, forse, ho confuso il piacere e l’amore
Ma non ho creato dolore

Oppure la critica alla visione di famiglia nel quarto comandamento (onora il padre onora la madre) che non tiene conto delle realtà di molte famiglie nelle quali prevalgono ingiustizie e violenze domestiche.

I tre album che vale la pena ricordare in questa sede e che rappresentano tre facce della poetica di De André – dove poetica non è un termine né casuale né tanto meno eccessivo ma pienamente calzante, considerata la profondità e la ricchezza tematica delle sue canzoni – sono: Non al denaro né all’amore né al cielo, Storia di un impiegato e Creuza de ma.

Non al denaro né all’amore né al cielo

Quinto album da lui pubblicato nel 1971, prende come ispirazione l’Antologia di Spoon River del poeta statunitense Edgar Lee Masters. Si tratta di una raccolta poetica in versi liberi in cui in ogni poesia, scritta in forma di epitaffio, viene raccontata la vita dei residenti dell’immaginario paesino di Spoon River. A dare vita alle storie per la verità sono i morti stessi che nello spazio di una poesia raccontano la propria esistenza. 

De André riprende lo stesso schema e fa parlare diversi personaggi seguendo due filoni: l’invidia e la scienza. Ed è proprio lui a spiegarci il perché di questi due temi che potremmo riassumere così: l’invidia è un sentimento umano comune a molti che deriva dalla competizione fra gli stessi esseri umani che li porta a porsi sempre a confronto e quindi a rinnovare costantemente la propria infelicità; l’altro é la scienza intesa però come progresso tecnico-scientifico non reso di pubblico dominio bensì ben sfruttato dalle classi dirigenti proprio per stimolare la stessa invidia. 

Emblematiche sono le canzoni Un matto e Un giudice.

Un matto racconta la vicenda dello “scemo del paese” che non riesce ad esprimere se stesso provando così invidia nei confronti degli altri: «gli altri sognan se stessi e tu sogni di loro» canta de André. Quindi il protagonista, per rendersi comprensibile e accettato, finisce per imparare a memoria la Treccani, rendendosi definitivamente matto agli occhi della gente e finendo così la propria vita internato in un manicomio.

Un giudice invece tratta di un uomo affetto da nanismo che cova rancore per essere stato deriso in giovinezza per la sua altezza e pertanto si impone di studiare per diventare giudice e vendicarsi contro tutti attraverso la condanna a morte: «e di affidarli al boia fu un piacere del tutto mio».

Significativa anche, oltre che commovente, è la storia di Un medico:

un bambino, notando i ciliegi rossi e ritenendoli ammalati, cerca di curarli appassionandosi così e idealizzando la carriera medica, che infine decide di intraprendere. Scontrandosi però con la realtà molto meno idilliaca e più materiale che lo costringe, su impulso dei colleghi, a curare pazienti «ammalati di fame e incapaci a pagare» senza quindi racimolare un soldo per la propria famiglia, finisce a spacciare come cura l’elisir della giovinezza andando incontro niente meno che alla prigione con l’accusa di truffa. 

Denominatore comune di questi personaggi, declinato nei macro-temi dell’invidia e della scienza, è l’isolamento dalla società, dettato da uno spiccato idealismo non compreso e quindi ostracizzato dalla moltitudine. 

Storia di un impiegato 

Pubblicato nel 1973, l’album più esplicito e politico è composto da 9 tracce collegate tra loro da un filo rosso: un giovane impiegato qualunque, dopo aver ascoltato un canto del maggio francese (l’insieme delle rivolte del ’68 scoppiate in Francia in quel mese) opta per la ribellione. 

Le nove canzoni descrivono quindi l’evoluzione del pensiero e dell’azione del giovane che alla fine risulta un tentativo un po’ goffo: infatti il ragazzo non entrerà a far parte di un gruppo rivoluzionario, ma agirà da solo e in modo disorganizzato al punto che ne Il bombarolo il suo tentativo di compiere un attentato al parlamento fallisce, facendo esplodere niente meno che un chiosco di giornali. 

È un esempio di individualismo che risulta un po’ un controsenso: cercare di sovvertire l’ordine costituito in solitudine risulta incomprensibile e di conseguenza fallimentare. 

Il finale di “storia di un impiegato” è racchiuso in Nella mia ora di libertà quando ormai il nostro giovane è incarcerato e quindi trova momenti di riflessione. 

Egli non cambia la sua idea di mondo, pronunciando la frase «Per quanto voi vi crediate assolti siete per sempre coinvolti»; ma, condividendo la sua storia con altri all’interno del carcere, si è accorto dell’importanza della collettività e di un’azione corale.  

Questo album è stato molto criticato subito dopo la sua uscita soprattutto dagli ambienti di sinistra, che convennero nel ritenere l’album una «satira del terrorismo degli anni Settanta» oltre che non abbastanza schierato. Essendo stato pubblicato proprio agli inizi degli anni ’70 e finendo in modo così tragico, è come se avesse dato per implicito il fallimento prematuro di quella stagione di contestazione che aveva come obiettivo il sovvertimento dell’ordine costituito e la costruzione di una società più giusta. 

Creuza de ma

Pubblicato nel 1984 è stato ritenuto dalla rivista Rolling Stone Italia il quarto album fra i 100 più belli in Italia degli anni ’80. In un decennio di ripiegamento nel privato dopo anni di impegno pubblico e lotta politica, in un periodo di riflusso e di edonismo e di rivincita degli ideali neoliberisti e globalisti, Faber esce con questo album interamente in lingua genovese antica, frutto della collaborazione musicale con Mauro Pagani

Scelta più che mai azzardata dal punto di vista commerciale: del resto si sa che laddove c’è denaro è difficile parlare di arte e viceversa. Invece proprio l’aver messo al centro la sua Genova e il Mediterraneo, ne ha fatto un album dall’impatto internazionale quasi a rievocare il periodo d’oro della superba repubblica di Genova che vide il suo apogeo tra il basso medioevo e il Seicento. 

L’architrave tematico della raccolta è costituito dal mare, dal viaggio e dai personaggi ad essi riconducibili, ma ciò che più colpisce l’ascoltatore sono le musiche in cui compaiono strumenti tipici dell’area mediterranea e che ne fanno soprattutto un capolavoro musicale. 

Il primo impatto è quello di un album sui generis in cui il binomio musicalità e lingua genovese si fondono come in un’estasi, slegandolo così dalla produzione più “impegnata”. 

La prima canzone Creuza de ma è un capolavoro di suggestioni, non certo un testo ermetico ma senz’altro uno dei più evocativi a livello di immagini: esso ritrae un gruppo di marinai fare sosta presso un’osteria, per poi riprendere la via del mare legati da una corda che rappresenta il loro destino.

Canzone che fonde mare e storia è Sinan capudan Pascià con protagonista tal Scipione Cicala, corsaro e condottiero genovese, rapito dagli ottomani e posto di fronte alla scelta se convertirsi all’Islam o morire. Sceglierà la prima e diverrà appunto pascià. Un personaggio quindi sospeso tra l’opportunismo, l’istinto di sopravvivenza e l’arrampicata sociale che però intercetta senz’altro il favore dell’autore. 

Più “deandreiana” è A Pittima, in cui viene tratteggiata la figura di una donna che come professione ha il compito di riscuotere i crediti, uno dei mestieri più impopolari. Anche lei è vittima della natura che le ha assegnato un corpo gracile e quasi deforme e quindi per questo non può fare altro che compiere quel lavoro lasciato come “scarto” dagli altri.

Articolo di Edoardo Ansarin

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