
Secondo l’«Osservatorio di Politica internazionale», la caduta dell’Impero ottomano (1922) tolse alla Umma (la comunità islamica) quella guida spirituale unitaria del Califfo di Costantinopoli. Questo rese ancora più profondo, nel corso del ‘900, uno squarcio da sempre presente nel mondo musulmano: da un lato l’Arabia Saudita, custode dei luoghi sacri, divenne un riferimento per la comunità sunnita; dall’altro, l’Iran post ’79, per quella sciita.Nel frattempo la Repubblica Turca, nata dalle ceneri dell’Impero, affrontò un periodo di rigido kemalismo, per poi assistere dagli anni ’80 alla graduale ascesa dell’islamismo, che è arrivato negli anni 2000 alla presidenza di una Repubblica fondata sui principi di secolarismo e occidentalizzazione, grazie al Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP).
In questa Umma “orfana”, Erdoğan sembra volersi candidare come nuovo leader a fronte di una comunità sunnita sempre più delusa dalla decadenza di un’Arabia Saudita corrotta dal capitalismo occidentale.
L’architettura per Erdoğan, pare uno dei principali strumenti per rilanciare quell’antica figura imperiale che la Repubblica aveva inizialmente deciso di lasciarsi alle spalle.Tra gli esempi di tale operazione culturale c’è la conversione di Santa Sofia a moschea nel 2020. Dopo quasi cent’anni di laicismo, Erdoğan infrange uno dei grandi trionfi per Atatürk: aver trasformato in museo la sacralità di quel luogo usata in passato come vanto da bizantini, veneziani e turchi.Tuttavia, non sono coinvolte solo le moschee storiche: l’AKP vuole lasciare nella storia un’impronta materiale di questa politica governativa.
Nel 2019 viene inaugurata, al di là del Bosforo, la Grande moschea di Çamlıca, attualmente la più grande della Turchia, con sei minareti; un numero maggiore della norma – cioè quattro.Nell’Impero ottomano, infatti, soltanto due moschee avevano più di quattro minareti: la Moschea del Profeta a Medina e la Grande Moschea della Mecca. Inoltre, era stabilito che il finanziamento per la costruzione di una nuova moschea dovesse provenire dai trionfi guerreschi, spesso per celebrarli. Questa regola, tuttavia, venne infranta da Ahmed I che costruì agli inizi del ‘600 la Moschea blu. L’assenza di trionfi bellici del Sultano e l’imponenza del luogo attirarono la disapprovazione degli ulama (i giuristi). Oggi la Moschea Blu è una delle più imponenti della metropoli, ed è avvolta dalle storiche controversie di un leader che sfidò le norme del suo tempo, pur di comunicare l’immagine di un impero smisurato.
La moschea del 2019 richiama architettonicamente quella seicentesca. Ma è possibile che lo faccia anche idealmente? Possibile che Erdoğan riutilizzi il simbolo di un monumento sfidante per dare un ulteriore incremento religioso ad Istanbul?

La «politica delle moschee » comunque si estende anche all’estero. Infatti, è stata definita neo-ottomanesimo la tendenza di Erdoğan a mantenere rapporti e influenze nelle zone storicamente appartenute all’Impero ottomano, come i Balcani, il Medio Oriente, il Caucaso e il nord Africa. Inoltre, il neo-ottomanesimo contempla rapporti economici, ma anche religiosi. Il 10 ottobre 2024 il presidente turco è stato all’inaugurazione della Grande moschea di Tirana, la più grande dei Balcani. La sua architettura in stile ottomano e il rifornimento di droni kamikaze, che accompagnano la sua costruzione, simboleggiano il legame e l’amicizia con Ankara.
Ma come possiamo provare che queste opere siano finanziate dalla Turchia? Partendo dalla Grande Moschea di Tirana, possiamo risalire al Direttorio degli affari religiosi (Diyanet), che ha preso parte al suo finanziamento.
Diyanet venne istituito nel 1924 da Atatürk con lo scopo di mantenere sotto controllo le varie istituzioni religiose, onde evitare che intralciassero il progetto laico dello Stato. Dopo che l’AKP prese il 34,3% di voti nel 2002, l’organo cambia faccia e diventa promotore dell’islamismo sunnita hanafita – la scuola maggioritaria in Turchia.
Secondo «MENA Research Center», il bilancio di Diyanet ammonterebbe a 6,8 miliardi di lire turche, superando altri undici ministeri, rendendolo una delle agenzie statali più ricche del Paese. Dal 2006 al 2015 avrebbe anche raddoppiato i suoi dipendenti arrivando a 150 mila persone assunte. Complici della strumentalizzazione sempre più palese di Diyanet da parte del Partito sono il fallito golpe militare del 2016, dopo il quale l’AKP prende una svolta sempre più autoritaria, e le dimissioni di Ali Bardakoğlu nel 2010, l’ultimo presidente dell’agenzia nominato da un presidente laico.
Resta comunque il dubbio su quanto effettivamente il «Califfo» sia approvato dai fedeli. Dubbio che forse troverà risposta con difficoltà, a causa delle dimensioni e la varietà della comunità islamica. Infatti, è chiaro come l’AKP voglia rendere la Turchia non solo una potenza politica capace di fare da mediatrice tra avversari ingombranti, come la Russia e l’Ucraina, l’Etiopia e la Somalia o l’UE e l’Oriente, ma anche voglia rafforzarla come potenza religiosa. Come Istanbul collega fisicamente est e ovest, Ankara vuole collegare e riconciliare non solo popoli in conflitto, ma l’islam globale.
Questa tendenza si può notare in Albania . Dalla fine del Regime nel ‘91, Tirana aveva solo una piccola moschea ottomana con una capienza di 60 persone. Questo portava ai fedeli grandi difficoltà, dal momento che gli abitanti della Capitale (300.000) sono per il 70% musulmani. Regalando loro una moschea consona al numero, ancora una volta Erdoğan riesce ad apparire come il «salvatore dell’islam». Proprio come quando criticò le autorità Svedesi per non essere intervenute in una manifestazione in cui venne bruciata una copia del Corano nel 2023.
Tuttavia, la grande contraddizione tra politica interna ed estera, che caratterizza Erdoğan e il suo Partito, emerge anche in questa gestione della sua immagine religiosa. L’approvazione delle minoranze musulmane in Turchia, infatti, sembra non interessare l’AKP.
Minoranze che non costituiscono numeri indifferenti: i Curdi, ad esempio, sempre sunniti compongono circa il 20% della popolazione nazionale e non godono nemmeno del diritto di essere nominati. La legge turca difatti riconosce solo le minoranze non islamiche secondo il Trattato di Losanna del 1923: armeni, greci ed ebrei. Mentre l’Arabia Saudita continua ad attrarre dissenso per il suo continuo avvicinamento al turbocapitalismo occidentale, la Turchia dell’AKP si propone come modello ibrido rivolto ad oriente, ma comunque aperto alla vicina Europa.
Tra le grandi testate giornalistiche occidentali, Erdoğan si è guadagnato da tempo l’appellativo di «sultano». Eppure, sembra che l’importanza dell’aura religiosa che sta costruendo passi a volte in secondo piano. Riuscirà a guadagnarsi il titolo di «califfo», di natura più spirituale?