
Nuovo anno, nuove sfide. Dopo concitati mesi di tensioni e negoziati, la Commissione Europea ha finalmente iniziato a operare nel suo nuovo mandato, alle prese con i vecchi e nuovi problemi delle istituzioni comunitarie.
Tra instabilità geopolitica, la minaccia degli antieuropeisti all’interno del Parlamento e l’incognita Trump, per la prima volta, i tre maggiori partiti europei (PPE, S&D, Renew Europe) hanno sottoscritto un patto di legislatura volto a garantire una maggiore stabilità politica e «rafforzare l’Unione Europea, fondata sui valori espressi dall’Articolo 2 TUE».
Di fronte a pericoli suscettibili di minare la coesione interna e la legittimità stessa del progetto europeo, l’Unione riafferma la propria identità basata sui valori comuni di democrazia, eguaglianza, libertà e stato di diritto e continua a sanzionare gli Stati membri che non li condividono e rispettano.
Ma cosa significa, in concreto, rispettare lo stato di diritto? Perché l’UE toglie fondi ai suoi stati? Esistono valori comuni?
Questo concetto, centrale nella costruzione dell’Unione, si basa su tre principi fondamentali: la supremazia della legge sull’arbitrio, la separazione dei poteri con un’attenzione particolare all’indipendenza della magistratura, e la garanzia di diritti specifici per i cittadini. In altre parole, lo stato di diritto è ciò che assicura che nessun individuo, nemmeno i rappresentanti del governo, sia al di sopra delle leggi e che i cittadini possano vivere in una società in cui i loro diritti fondamentali sono protetti.
Nonostante questa definizione apparentemente chiara, il concetto di «stato di diritto» non è privo di controversie: alcuni governi, come quello ungherese, lamentano il fatto che l’Unione imponga un modello «occidentale» di democrazia e giustizia che non tiene conto delle specificità culturali e storiche di ciascun Stato Membro.
La prospettiva del «grande allargamento», rivolto soprattutto a Paesi con esperienze storiche e politiche lontane dal modello di derivazione liberale (n.d.r. ad esempio, Cecoslovacchia o i Paesi Baltici), ha imposto all’Unione Europea di precisare i criteri e i valori da rispettare per poter aspirare alla membership, riflettendo su se stessa, sulla propria identità (costituzionale) e sui valori che propone.
Indipendentemente da tali riflessioni e dagli sforzi compiuti nel corso dei decenni, oggi l’immobilismo predomina: il sogno di un’Europa veramente unita, capace di agire con una sola voce nelle questioni internazionali, sembra un’utopia. A ciò si aggiungono divisioni sempre più marcate e tensioni tra gli Stati membri, alimentate da partiti nazionalisti e populisti che dipingono l’Unione come un’élite distante e tecnocratica, incapace di rappresentare le esigenze ed i bisogni dei cittadini.
Questa crisi di coesione è stata aggravata dalla graduale involuzione democratica osservata in alcuni Stati membri. In particolare, il caso dell’Ungheria ha sollevato gravi preoccupazioni che hanno richiesto l’introduzione di strumenti di tutela specifici, primo tra tutti il meccanismo di condizionalità dello stato di diritto (regolamento 2092/2020). Questo subordina l’erogazione ed il mantenimento dei fondi europei al rispetto dei principi fondamentali dell’Unione.
In altre parole, se un governo viola sistematicamente lo stato di diritto (ad esempio, compromettendo l’indipendenza della magistratura) l’Unione può sospendere o ridurre i fondi destinati a quel Paese, con il fine di orientarne le scelte politiche verso i valori comuni.

Tale meccanismo è tornato al centro del dibattito pubblico dopo che, lo scorso dicembre, la Commissione Europea ha dichiarato insufficienti le misure correttive adottate dal governo di Budapest. Secondo Bruxelles, permangono rischi significativi di indebite ingerenze politiche sugli organi pubblici, che compromettono la trasparenza e l’imparzialità delle istituzioni statali. Per questi motivi, ha deciso di rendere definitiva la revoca di 1,04 miliardi di euro di fondi.
Ma quindi, in che modo lo stato di diritto aiuta l’Unione Europea?
Come ribadito dal Consiglio Europeo, una solida cultura dello Stato di diritto è fondamentale per le democrazie moderne ed è centrale nella lotta contro la corruzione, nella salvaguardia della libertà di espressione e nella promozione dei diritti umani.
Garantire che la legge prevalga sull’arbitrio assicura stabilità all’intero sistema e protegge i cittadini da ingerenze del potere, creando uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia.
Al di là degli ideali e dei principi giuridici, l’Unione Europea è una realtà concreta che incide quotidianamente sulla vita di milioni di cittadini. Stiamo vivendo il periodo di pace (n.d.r. tra le nazioni dell’Unione) più lungo della storia europea e godiamo di diritti e opportunità che fino a pochi decenni fa sarebbero stati impensabili: libertà di circolazione, il mercato unico, diritti sociali e civili condivisi sono solo un elenco sommario dei benefici .
Tuttavia, l’Unione non è immune da minacce. Rapporti come quello presentato dall’ex presidente finlandese Niinistö mettono in guardia sui rischi che l’Europa potrebbe dover affrontare nei prossimi anni: aggressioni armate, attacchi cibernetici, scarsità di risorse sono solo alcune delle preoccupazioni espresse nel testo. Ma il pericolo immediato è un altro: l’UE potrebbe restare paralizzata dalla debolezza decisionale della sua architettura istituzionale che prevede l’obbligo di voto all’unanimità per questioni di sicurezza e politica estera.
Un sistema che originariamente doveva garantire equilibrio e parità tra Stati Membri oggi rappresenta un ostacolo alla capacità di reazione rapida: come si legge nel rapporto, «[ormai], i veti possono essere abusivamente utilizzati come merce di scambio per negoziazioni politiche a parte, basate su interessi nazionali». Per questi motivi, il passaggio al voto a maggioranza qualificata su materie strategiche è ormai una necessità.
Se l’Unione Europea è essenziale per garantire stabilità e benessere, diventa fondamentale capire cosa serve per renderla più forte e coesa.
Il percorso verso una nuova Europa sarà lungo e richiederà tanti piccoli passi; come ha affermato Robert Schuman, «L’Europa non potrà farsi in una sola volta, né sarà costruita tutta insieme; essa sorgerà da realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto».
Ciò significa che il consolidamento dell’Unione deve partire dalla cooperazione su questioni cruciali che, data la loro complessità e rilevanza, non possono essere affrontate efficacemente dagli stati nazionali. Ad esempio, tematiche come l’approvvigionamento energetico, l’immigrazione o il rilancio dell’industria europea hanno già dimostrato che una gestione da parte dei singoli stati è caotica e fallimentare: esse richiedono piuttosto un approccio unitario.
Gradualmente, attraverso queste «realizzazioni concrete» sarà possibile costruire un’Europa coesa, in prospettiva di una riforma dei trattati che garantisca la possibilità all’Unione Europea di agire in modo democratico ed indipendente dagli stati membri.
«Le decisioni non si possono più posporre», ci ricorda Draghi. Di fronte ad un futuro incerto, l’unica certezza è che l’Unione Europea deve cambiare per non scomparire. Proseguire con l’attuale immobilismo non è più accettabile: bisogna rafforzare la nostra indipendenza e rilanciare l’autonomia europea per non soccombere di fronte agli altri attori globali. Solo con scelte coraggiose si potrà affrontare efficacemente le sfide del presente e proseguire il percorso verso un’«unione sempre più stretta».