«Io lo trovo pericoloso come tutti i padroni dei social media», relativizzava Marco Travaglio a proposito di Elon Musk durante una puntata di Otto e mezzo, lo scorso settembre. «Anzi, credo che sia un po’ più pericoloso di lui Zuckerberg».
Lo stesso paragone è stato fatto a dicembre da Marco Rizzo (ex segretario del Partito Comunista), a seguito della fuga di utenti e testate da X.
Sia Travaglio che Rizzo parlano di ipocrisia e disparità di trattamento fra i due imprenditori, ipoteticamente dovuta all’appiattimento di Zuckerberg sull’amministrazione Biden: il proprietario di Meta (ergo di Instagram, WhatsApp e Facebook) ha infatti ammesso, in una lettera al Congresso della scorsa estate, di aver ricevuto pressioni dalla Casa Bianca affinché venissero censurati dei contenuti.
Posta la criticità dell’ingerenza politica nella comunicazione e nell’informazione e posta la varietà di opzioni preferibili alla censura tout-court (quale la contestualizzazione, oggi spesso usata), Travaglio e Rizzo omettono di specificare che i contenuti in oggetto consistevano in fake news sul COVID-19, e che nella stessa lettera Zuckerberg sottolinea che «In ultima istanza, nostra è stata la decisione di eliminare quei contenuti, e ci prendiamo la responsabilità delle nostre decisioni».
L’imprenditore parla in realtà anche di un altro contenuto censurato, relativo alle controverse ipotesi di corruzione di Hunter Biden, figlio del Presidente, pentendosi di tale censura (che presenta comunque anch’essa come sua scelta finale di policy).
È dunque così? Zuckerberg è di sinistra e filo-democratico, specularmente al trumpiano Musk?
Il primo punto da affrontare è che, foss’anche che Zuckerberg incarnasse la censura di sinistra sui social, non ci sarebbe specularità simmetrica fra la sua mal sofferta ottemperanza alle richieste di Biden e l’entusiastico sostegno di Musk a Trump.
Inoltre, quanto è consustanziale a Zuckerberg questo atteggiamento censorio e filo-democratico? Molto meno che ad altri suoi colleghi.
Al di fuori del COVID-19, la vera grossa censura “di sinistra” che viene oggi imputata a Zuckerberg è legata al ban di Trump dopo l’assalto al Campidoglio di quattro anni fa: l’ex-Presidente (e la piattaforma Parler, a lui legata) furono estromessi, in modo più o meno permanente, da Facebook, Instagram, Twitter, TikTok, Twitch, Discord, Apple, Reddit, YouTube, Snapchat, persino il social di fotografie Pinterest.
Ebbene, non solo Facebook era dunque in buona compagnia, ma si aggregò relativamente di malavoglia: rispetto a Twitter (allora in gestione al suo fondatore Dorsey, da tempo impegnato in questo senso), Zuckerberg veniva da una storia di rifiuto del ruolo di controllo sui propri contenuti, nel sempre più attuale dibattito sui social intesi come piattaforme puramente private oppure dal ruolo editoriale, con una qualche responsabilità su ciò che viene pubblicato.
L’ha ribadito più volte:
nel 2019 insieme a Twitter, in risposta a Kamala Harris (allora candidata alle primarie) e a proposito di Trump; a inizio 2020 in contrasto a Twitter, che era appena stato attaccato legalmente da Trump (per aver smentito le fake news che il Presidente iniziava a tessere riguardo i potenziali brogli elettorali).
Nei mesi successivi, mantenne questa linea anche sui commenti incendiari di Trump a proposito del movimento Black Lives Matter – a posteriori l’unica scelta veramente bideniana, se si vuole ironizzare, dato che la mala gestione delle proteste di quell’estate fu tra i fattori primari della sconfitta di Trump. Il laissez-faire di Zuckerberg (e non solo) lo ha portato a doversi scusare al Senato per i danni causati ai minori, dalla salute mentale ai possibili abusi.
Per alcune piattaforme come Facebook, insomma, il ban di Trump non è stato la coerente evoluzione delle proprie politiche quanto piuttosto un’inversione a U: «Persino Zuckerberg ne ha abbastanza di Trump», si titolava; «Il giorno in cui Internet si è rivoltato contro Trump», si scrisse – in parte ex abrupto.
Il secondo punto da evidenziare, per verificare la supposta collocazione a sinistra di Zuckerberg, è come si sia mosso le poche volte che è intervenuto o ha influito sulla politica.
A parte la censura di attivisti e giornalisti di parte del mondo arabo, riemersa dopo l’offensiva israeliana a Gaza del 2023 ma non particolarmente anti-bideniana, l’elefante nella stanza è Cambridge Analytica.
La società di consulenze britannica (come venne rivelato nel 2015 e nel 2017, ma soprattutto nel 2018) utilizzò senza consenso i dati personali di milioni di utenti di Facebook, applicandoli a vantaggio dei candidati statunitensi repubblicani Ted Cruz e Donald Trump nel 2016; meno circostanziate sono invece risultate le ipotesi di legami con una multinazionale russa e con il voto per la Brexit dello stesso anno.
Zuckerberg, chiamato per la prima volta al Senato, ammise le proprie responsabilità nella mancata tutela dei dati personali.
Fra i principali finanziatori di Cambridge Analytica figurava Robert Mercer, finanziatore anche della prima campagna di Trump e poi di J.D. Vance, che sarà ora vicepresidente degli Stati Uniti. Vicepresidente della società di consulenze era invece Steve Bannon, allora stratega di Trump e fautore dell’alleanza internazionale fra le estreme destre.
Zuckerberg, insomma, o ha evitato di esporsi (e di esporsi contro Trump, in genere) o è stato coinvolto negli scandali della destra americana.
Ha avuto, con riluttanza, una parentesi “censoria” nel 2021 contro Trump e la disinformazione sul COVID-19, che ha comunque già chiuso (l’ex-presidente è stato riammesso sui social Meta, come su YouTube, già nel 2023 – anticipando persino l’X di Musk).
Con la vittoria di Trump, anzi, Zuckerberg ha subito visitato il neo-eletto alla sua villa di Mar-a-Lago, un gesto visto come di riappacificazione e paragonato da Cecilia Sala a quello di poco successivo da parte del presidente canadese Trudeau, di centrosinistra.
Se nel caso di Trudeau il passaggio obbligato a casa di Trump pare un rituale di umiliazione e una manovra psicologica su immigrazione e dazi rivolta anche al Messico (Sala titola «Trudeau in ginocchio da Trump», mentre l’ex-avversario De Santis denunciava la pratica metaforica di «baciare l’anello» di Trump), con Zuckerberg le cose sono più banali.
Canada, Messico o il Senato possono essere sottoposti a questi rituali di «sottomissione», come scrive Francesco Costa, mentre il mondo tech che ha iniziato un pellegrinaggio alla sua villa in Florida sembra più volersi accreditare come partner della nuova amministrazione.
Dopo Zuckerberg, infatti, a dicembre Trump ha incontrato Chew (TikTok), Cook (Apple), Pichai e Brin (Alphabet, ergo Google) e Bezos (Amazon). Non solo: il comitato per l’insediamento di Trump ha ricevuto donazioni da Altman (OpenAI, ergo ChatGPT e DALL-E), Amazon, Meta e Cook.
C’è chi li ha descritti come personaggi che «si recano a corte» (o «a baciare la pantofola»): la vignettista Ann Telnaes si è licenziata dal Washington Post dopo aver visto censurare la sua caricatura dell’editore Bezos che, insieme ad Altman, Zuckerberg e Topolino, si prostra ai piedi di Trump.
Ma che cosa chiedono in cambio di oro, incenso e mirra questi Re Magi? Giunti a questo punto, occorre evidenziare che sì, abbiamo dimostrato che Zuckerberg non è di sinistra quanto Musk lo è di destra. Ma non è nemmeno di destra allo stesso modo in cui Musk lo è.
La parabola e le inversioni a U dell’imprenditore si inscrivono nel privato opportunismo in modo molto lineare; se qualcosa è rimasto costante in questi anni, è che alla fine Zuckerberg ha settato le proprie piattaforme su un livello di moderazione apertamente inferiore ad altri, ma senza farne bandiera politica di una vera sfida alle istituzioni come Apple e adeguandosi a ciò che stava bene all’amministrazione di turno.
È evidentemente e comprensibilmente l’interesse privato a guidare la ricerca di un buon rapporto con Trump, da parte sua e degli altri imprenditori.
Se qualcosa accomuna Zuckerberg a Musk dal punto di vista politico, è qualcosa di tanto generico da risultare blando: l’ostilità alla pressione fiscale (e non solo) implementata dai Dem meno moderati in California, tanto da far muovere entrambi gli imprenditori verso il Texas e da far rischiare alla Silicon Valley di diventare solo un’etichetta giornalistica.
Non a caso Francesco Marino ha parlato di «Mondo social […] da sempre più vicino ai Dem» che vira a destra, di un «cambio di passo», di una «cesura» (ma non così recente per Zuckerberg, come si è detto).
Più in generale, il desiderio di politiche liberiste, ma anche apparentemente liberali, sul fronte del “politicamente corretto” (intese come disimpegno sulla moderazione). Poco conta, poi, che in realtà rapporti personali con il Presidente da parte di aziende accusate di monopolio abbiano poco a che fare con il libero mercato di Adam Smith; che Trump non sia stato un Presidente tanto liberista e forse non lo sarà neanche stavolta (ma ad alcune aziende del liberismo interessano le poche tasse più che la poca spesa). Che le grosse aziende private ricevano pressioni e censure anche dai governi Repubblicani; che il nuovo leader della Federal Trade Commission (FTC) nominato da Trump, Ferguson, sia diventato membro grazie a Biden e si sia schierato contro gli oligopoli (in continuità con l’uscente Khan), oltre che contro «la censura».
Su questo fronte, TPI ha paragonato proprio Musk e Zuckerberg, dato che Nick Clegg (vicepresidente uscente di Meta e libdem britannico) ha manifestato il desiderio di «un ruolo attivo» nelle scelte dell’amministrazione, in particolare nel settore dell’intelligenza artificiale: Trump infatti aveva già promesso di revocare le limitazioni etiche imposte da Biden all’A.I.
Interessi economici, dunque, trasversali e prescindenti dal posizionamento ideologico di questi imprenditori su qualsiasi altro tema. Al massimo si può citare un certo appeal sul pubblico dei tech o crypto bro e di alcuni podcast, spesso tendenti a destra in virtù della mitizzazione del liberismo finanziario.
Ma Zuckerberg e Musk non si equivalgono su nient’altro: dalle questioni culturali di destra, sposate in pieno da Musk, alle ambizioni politiche di quest’ultimo (e il modo spregiudicato in cui le persegue).
Nonostante in certi meme Musk sembri aver sostituito Zuckerberg nella sua poca emotività (a seguito anche della retorica dem sulla sua weirdness, ma lui sostiene di avere la sindrome di Asperger), persino i caratteri dei due imprenditori appaiono notevolmente diversi – lo stesso Travaglio parlava di «comportamenti strani, altri meno» di Musk.
Fa forse eccezione il lessico “muskiano” con cui Zuckerberg ha appena annunciato la riduzione del fact-checking, secondo Marino, ma è tutto qui.
Appaiono lontani insomma i tempi in cui Sangiuliano organizzava il match fra Musk e Zuckerberg, e non solo perché Sangiuliano non è più un nostro ministro.