
Per fare chiarezza su un argomento così intricato e tecnico quanto fondamentale per il funzionamento della nostra democrazia come l’autonomia differenziata non si può che partire dall’approvazione il 26 giugno 2024 della legge n.86.
Dopo mesi di tira e molla la maggioranza è riuscita a trovare una sintesi su un testo che si stava arenando e che non trovava nemmeno il favore della piena maggioranza con i vari distinguo di esponenti di Forza Italia.
In primo luogo, bisogna ricordare come il processo di devoluzione di funzioni dallo stato alle regioni, nel rispetto del principio di sussidiarietà previsto dalla nostra Costituzione, sia nato da un’idea sviluppata in Europa a partire dagli anni 80. Affondando le sue radici nell’idea più recente di maggiore devoluzione di poteri alle “periferie” dello stato per una gestione più efficiente dello stato sociale, esso infatti mira a delegare appunto alcune funzioni ai livelli di Governo più prossimi ai cittadini (province e comuni).
Il primo embrione di autonomia differenziata è stato approvato nel 2001 dalla maggioranza di centro-sinistra con la revisione del titolo V della costituzione. Essa ha ridefinito le competenze tra Stato e Regioni, ridisegnando il ruolo di queste ultime tanto a livello interno quanto sul piano internazionale.
Infatti lo stato viene messo sullo stesso piano dei comuni, delle regioni, delle città metropolitane come elementi costitutivi e parificati della Repubblica. La vera innovazione, oltre alla fondamentale stesura dell’articolo 117 che elenca tutta una serie di materie di competenza prima esclusiva statale, poi concorrente (cioè di competenza sia dello Stato sia delle regioni) ed infine residuale regionale (quando la competenza non è esplicitamente statale e si ritiene dunque propria delle regioni), sta proprio nella possibilità per le regioni ordinarie di richiedere “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” nelle materie di legislazione concorrente e in poche altre, concesse loro attraverso legge dello stato.
Dal 2001 al 2009 si è assistito ad una spinta verso il federalismo culminata con la legge Calderoli (n.42/2009) che ha riguardato più che il federalismo politico quello fiscale.
Infatti si è proposto di stabilire una proporzionalità diretta tra le imposte riscosse da un ente territoriale e le imposte effettivamente utilizzate dall’ente stesso, evitando finanziamenti a pioggia e sprechi. Infatti storicamente il sistema fiscale italiano era basato sui trasferimenti dallo stato agli enti territoriali. Con questa nuova concezione invece si vuole che siano gli stessi enti territoriali a finanziare le proprie attività in autonomia attraverso tributi propri. Se quindi da un lato il federalismo fiscale vuole migliorare la gestione della spesa pubblica massimizzando i servizi, dall’altro è imprescindibile definire i cosiddetti Lep.
Essi sono i livelli essenziali di prestazione e dei servizi che devono essere garantiti in modo uniforme su tutto il territorio nazionale in quanto riguardano diritti sociali e civili da tutelare.
Se quindi ci sono aspetti già appaltati agli enti territoriali dalla legge dello stato, in altri settori i livelli del servizio da garantire non sono ancora stati individuati, basti pensare ai servizi erogati in modo disomogeneo come quelli socio-educativi. La costituzione infatti affida allo stato il compito di definire questi Lep. Definirli significa che lo stato non solo deve individuare per ciascuna materia uno standard adeguato di prestazioni e servizi ma si assume l’incarico di garantire, se necessario, agli enti territoriali le risorse sufficienti per erogarli.
Approvata quindi la legge dello stato che consente di attribuire alle regioni richiedenti particolari forme di autonomia è subito intervenuta la Corte Costituzionale, che ha dichiarato incostituzionali, con la sentenza 192, alcune parti della legge 86/2024. In primo luogo, la Corte ha bocciato numerose norme centrali nel processo di devoluzione. Tra esse, oltre alla possibilità di trasferire a una regione intere materie in blocco, il conferimento di deleghe in bianco al Governo per la determinazione dei Lep che riguardano i diritti civili e sociali e le modalità previste per la determinazione e l’aggiornamento dei Lep, attraverso un decreto del presidente del Consiglio dei ministri.
Va ricordato sempre che a legiferare può non essere solo il Parlamento ma il Governo attraverso i decreti legislativi che consentono di far legiferare il governo su “mandato” della maggioranza Parlamentare.
La corte sottolinea sempre come queste deleghe che il Parlamento fa al Governo devono essere ben specificate e non possono trattarsi di deleghe in bianco – patologia purtroppo sempre più presente nel processo legislativo italiano-. Inoltre la corte ha ribadito il divieto di trasferire competenze dallo stato alle regioni in materie di rilevanza nazionale come il commercio con l’estero, la distribuzione di energia nonché le norme generali in materia di istruzione.
Per di più la corte, nel salvare le disposizioni impugnate, ne ha comunque imposto una lettura sistematica che contraddice l’intenzione politica della legge in quanto valorizza il ruolo del Parlamento nell’approvare la legge di differenziazione che deve essere votata a maggioranza assoluta. Il decalogo della corte richiede quindi interventi puntuali sulle norme oltre che un generale ripensamento nell’impostazione della legge e nei rapporti Parlamento-Governo.
La corte infatti sottolinea come esista un unico popolo italiano e non tanti popoli regionali titolari di posizioni di sovranità. L’unità del popolo e della nazione postula l’unicità della rappresentanza politica nazionale.
Ribadisce l’unità e l’indivisibilità della repubblica come contraltare alla visione senz’altro oggi autonomista (30 anni fa avremmo detto secessionista) che la Lega, partito sponsor della legge, porta avanti.
Allo stesso tempo è stato proposto da parte di tutti i partiti di opposizione (tranne Azione) e insieme alle principali sigle sindacali e associazioni nazionali, un referendum sulla legge 86/2024 – contenente le disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata per le regioni a statuto ordinario ai sensi dell’art. 116 comma 3 della costituzione. L’obiettivo di tale referendum era di abrogare in toto la legge approvata che definisce proprio i principi generali per attuare l’autonomia differenziata introdotta, come abbiamo detto, con la riforma costituzionale del 2001.
Tuttavia la stessa Corte Costituzionale ha ritenuto inammissibile il referendum in quanto l’oggetto e la finalità del quesito non risultavano chiari e quindi ciò avrebbe pregiudicato la possibilità di una scelta consapevole da parte dell’elettore.
Inoltre, secondo i giudici della consulta, questo referendum si sarebbe di fatto risolto in un quesito non tanto sulla legge 86/2024 in sè, bensì proprio sul concetto di autonomia differenziata e quindi sull’art. 116 terzo comma della costituzione. Bisogna sempre ricordare che qualsiasi tentativo di modifica della costituzione deve essere approvato non attraverso un semplice referendum abrogativo, bensì attraverso un referendum costituzionale che prevede tutto un altro iter di approvazione.
Per di più la corte, con la sentenza 192, ha già inciso sull’architettura essenziale della legge dichiarando l’illegittimità costituzionale di molte disposizioni di legge e fornendo un’interpretazione sistematica dell’art. 116. Attraverso la lente del regionalismo cooperativo italiano che dà risalto al principio di leale collaborazione tra stato e regioni, la disposizione in questione deve essere letta come espressione propria del principio di sussidiarietà. Ha ridimensionato inoltre possibili trasferimenti alle regioni (solo specifiche funzioni e non materie) nonché la paralisi dell’individuazione dei Lep concernenti diritti civili o sociali.
Allo stato attuale quindi non c’è modo di individuare i Lep di cui alla legge Calderoli, in quanto i vecchi criteri non hanno più efficacia e i nuovi ancora non esistono.
Rimangono le materie che non hanno bisogno di determinazione dei Lep, che afferiscono a funzioni il cui trasferimento è difficilmente giustificabile secondo il principio di sussidiarietà, a condizione che esse non incidano su un diritto civile o sociale.
Pertanto alla luce di questo radicale intervento demolitore, al Parlamento conviene riprendere totalmente in mano la materia del federalismo fiscale attraverso provvedimenti che sanino le questioni sollevate dai giudici: è in buona sostanza un edificio da ricostruire. Si prevedono dunque tempi lunghi.
Articolo di Edoardo Ansarin