
In un’intervista del 1975, alla domanda Tu perché scrivi, Alberto Moravia risponde:
«Io scrivo per vocazione, ho cominciato a narrare prima di saper scrivere. Mi raccontavo storie ad alta voce. Se è vero che la letteratura è nata prima della scrittura, come esperienza orale, bene, questo è il mio caso. (…) Come scrittore, io sento che sono chiaramente subordinato alla vocazione del narratore. Devo scrivere per poter narrare. Sono due cose diverse. Ci sono bravi scrittori che non sono buoni narratori, o non sono narratori affatto.»
Che cosa è cambiato nello scrivere e nel narrare, tanto da far dire che il romanzo è morto o è in crisi?
Alla domanda Moravia risponde in modo poco chiaro: contrappone il romanzo del passato, imperniato sulla vita sociale e i suoi riflessi, al romanzo moderno, inaugurato da Dostojevskij e dedicato alla vita interiore dei personaggi. Viene così illustrato un cambiamento nelle esigenze narrative dell’uomo, ma nulla si dice sulla crisi del romanzo, che sembra anzi pronto ad accogliere la nuova sensibilità dell’inconscio umano.
E ora da dove verrà il nuovo? Dalla scienza o dall’arte?
«Le attività umane vanno avanti insieme. Proust e Bergson sono contemporanei. Io non credo alle “due culture”. Narrare è un’attività primordiale. Tutte le attività legate alla natura durano quanto la natura.»
Moravia sembra accantonare la questione del romanzo per affermare l’eternità del bisogno umano di narrare.Sembrerebbe che il romanzo sia destinato a vivere per sempre proprio perché è lo strumento di una necessità costante dell’uomo, ma una conclusione simile sarebbe irragionevole e contrasterebbe con le stesse parole dello scrittore.Infatti, non solo non si vede perché una forma contingente come quella del romanzo debba essere destinata all’eternità, ma la distinzione tracciata dallo stesso Moravia tra scrittura e narrazione indica la possibilità che i loro percorsi si stiano avvicinando a un bivio.
Se l’uomo soddisferà il proprio innato desiderio di raccontare in altri modi, allora si dovrà parlare di crisi e infine di morte del romanzo. Ovviamente questa conclusione logica non poteva sfuggire a colui che ne aveva stabilito le premesse, ma forse nel 1975 era inconcepibile una seria alternativa alla scrittura come veicolo della narrazione. Come un oracolo, l’ultimo scambio dell’intervista sembra concludere il ragionamento di Moravia e rispondere con il senno di poi alla domanda precedente.
Di che cosa hai paura?
«Che venga qualcosa che nessuno si aspetta»
Forse il tono poetico di questo scambio prometteva qualcosa di diverso, ma un imprevisto è arrivato veramente. La rivoluzione digitale si è materializzata nel giro di due decenni, spazzando via tonnellate di carta e sconvolgendo abitudini secolari. La crisi del romanzo, evocata su un piano tutto teorico nel 1975, può essere oggi individuata nella crisi della carta stampata. Tuttavia, invece di descrivere un fenomeno tutt’altro che chiaro, penso sia più interessante concentrarsi sulla distinzione tra narrazione e scrittura, cercando di definire il confine tra due attività così strettamente legate. La narrazione è un bisogno primordiale dell’uomo, come ricorda Moravia, mentre la scrittura è un’operazione concreta. Nasce come incisione sulle tavole o su altri supporti solidi, e prima ancora di essere uno strumento della narrazione serve a documentare la contabilità.
Più tardi scrittura non significa più incisione, ma è la semina della pergamena o del papiro con lettere d’inchiostro. Della metafora agricola dello scrivere esistono testimonianze fin dai tempi dei Romani, che paragonavano l’acquisto del testo scritto a quello delle piante seminate nel campo altrui[1].
Con l’invenzione della macchina da scrivere, scrittura significa computazione: il gesto minimo della battitura corrisponde all’unità minima del testo scritto, la lettera. Come suggerisce il nome, il computer non ha aggiunto niente di nuovo. Leggendo questa breve cronaca delle forme di scrittura, dalla quale mancano rilievi, mosaici e altre tecniche minori, si nota l’assenza della più grande rivoluzione che il campo abbia mai conosciuto: la stampa.
Non è un caso: essa non si inserisce nel solco delle forme di scrittura quanto in quello delle innovazioni industriali, la stampa sta alla scrittura come la catena di montaggio sta al disegno dell’automobile. I caratteri mobili permettono di riprodurre industrialmente qualsiasi testo scritto, ma non sono mai stati il mezzo con il quale lo scrittore concepisce e produce la propria opera in prima battuta.[2]Incisione, scrittura e computazione avvengono contemporaneamente al momento creativo, o, tuttalpiù, ne sono una riproduzione singola e manuale. La stampa è la riproduzione industriale del testo, sconnessa da qualsiasi rapporto con il suo contenuto.
La scrittura è innanzitutto un gesto, ma è un gesto che media tra la formulazione della frase e la sua stesura[3].Scrittura significa trasferire nel mondo reale la frase composta nella mente.La parola deriva dal tema indoeuropeo skarb[4], da cui discendono anche le parole grafia e scalpello, rispettivamente giunte in italiano dal greco e dal latino.Si direbbe che lo scrittore e il muratore fanno lo stesso lavoro.
In effetti, proprio Moravia affermava che la scrittura, cioè la disposizione letteraria della narrazione e dei suoi blocchi, è una grande fatica artigiana.
Ovviamente lo scrittore, o narratore che dir si voglia, non si riferiva alla dimensione artigianale del gesto tecnico, ma alla ricerca della forma espressiva di un concetto. La narrazione è dunque la capacità di concepire e raccontare storie, disponendo in blocchi gli episodi e gli elementi del racconto.
La scrittura è un’attività doppiamente tecnica, perché consiste da un lato in un’azione materiale e dall’altro nell’operazione necessaria a fissare gli elementi della narrazione. Questo secondo aspetto tende a perfezionarsi nei secoli: il virtuosismo e la poesia sono elementi della scrittura, non della narrazione. In merito a questa osservazione è curioso osservare come l’aspetto materiale abbia avuto modo di perfezionarsi solo nel momento in cui la scrittura rappresentava la mera riproduzione del testo: nessuno ha messo più cura degli amanuensi nel disegnare lettere dorate.
Le parole di Moravia hanno tracciato una distinzione che per molto tempo poteva suonare inutile o eccessivamente astratta, ma che oggi risulta perfettamente comprensibile. L’associazione tra scrittura e narrazione dura da millenni, ma nulla esclude che possa giungere a una fine. Ci si può chiedere allora cosa sarà dei bravi scrittori che non sono buoni narratori, se costoro non avranno modo di mettere a frutto il proprio talento nella grande fatica di scrivere romanzi. Sicuramente, come le statue che ci vedono invecchiare dai Greci in poi, certe frasi rimarranno scolpite nel tempo grazie all’opera di un buon artigiano.
[1] Gai. 2.77
[2] Si noti che l’ultima metafora è ingiusta, perché esclude tutti gli scrittori che sono vissuti prima dell’epoca della computazione.
[3] anche qua la metafora è cattiva, visto che le lettere appaiono verticali sullo schermo, tutt’altro che “stese”
[4] dizionario etimologico
Articolo di Ettore Campana