Del: 27 Febbraio 2025 Di: Matilde Elisa Sala Commenti: 0

Ogni due mesi, il giorno 27, 5 serie TV per tutti i gusti: The Sofa Chronicles è la rubrica dove recensiamo le novità più popolari del momento, consigliandovi quali valga la pena guardare comodamente sul divano e quali no.


Tell Me Lies, Stagioni 1 – 2, Hulu, Disney+ (Meaghan Oppenheimer) – recensione di Viviana Genovese

Basata sull’omonimo romanzo di Carola Lovering, Tell Me Lies è una serie che scava nei lati più oscuri delle relazioni, esplorando il sottile confine tra passione e distruzione. La storia si sviluppa nell’arco di otto anni e ruota attorno a Lucy Albright (Grace Van Patten) e Stephen DeMarco (Jackson White), il cui legame è caratterizzato da manipolazioni, segreti e dipendenze emotive. La narrazione si snoda tra il presente e il passato, con i protagonisti che, pur cercando di scappare dai propri fantasmi, si ritrovano intrappolati nelle stesse dinamiche tossiche e cariche di tensione.

Composta da 18 episodi totali distribuiti in due stagioni, la serie cattura l’attenzione grazie alla chimica palpabile tra i personaggi principali.

Nella prima stagione, il loro incontro all’università segna l’inizio di un rapporto che sembra romantico, ma ben presto si rivela un gioco che ruota attorno a bugie e tradimenti.

Con l’arrivo della seconda stagione – approdata su Disney+ in Italia il 20 novembre 2024 – invece, si portano alla luce le conseguenze devastanti delle loro scelte, mentre le ripercussioni delle loro azioni si fanno sentire anche su chi li circonda.

Un racconto ideale per chi ama i drammi psicologici intensi e complessi e che, pur essendo ancorato a una struttura relativamente semplice, mette a nudo la difficoltà di lasciar andare ciò che ci ferisce – anche quando è l’unica via per ritrovare sé stessi – e non smette mai di sorprendere, coinvolgendo lo spettatore e mantenendolo costantemente sospeso, ma senza mai deluderlo.


Squid Game, Stagione 2, Netflix (Hwang Dong-hyuk) – recensione di Michele Cacciapuoti

Netflix ha storicamente abituato il pubblico a un calo di qualità, quando una serie originale (magari non statunitense) viene sussunta da Hollywood per nuove stagioni: spesso viene spremuta fino al midollo. Con Squid Game, in effetti, la divisione del sequel in due stagioni sembra rispondere a tali logiche (resta in sospeso soprattutto la storyline della guardia No-eul, ma altri cerchi si chiudono bene).
C’è un buon equilibrio fra noto e ignoto, fra il ritorno dei giochi della prima stagione e l’innovazione (nelle regole e con nuove sfide). Rispetto all’originale, risulta persino migliorato l’aspetto corale e delle dinamiche di gruppo (anche se a svantaggio dell’approfondimento dei singoli, forse anche per la divisione in due stagioni).
Nonostante alcune critiche, anche le prime due puntate dai tratti più revenge e caper sono ben congegnate: quello che manca è un legame fra queste e il resto della stagione, ambientato sull’isola. Non appare credibile il modo in cui Gi-hun torna a giocare, mentre viene obliterato l’unico richiamo al mondo esterno: la storia del poliziotto Jun-ho, dai risvolti peraltro prevedibili.


M – Il figlio del secolo, Miniserie, Sky (Stefano Bises, Davide Serino, Antonio Scurati) – recensione di Carmine Catacchio

Il timore era quello di un banale biopic sulla vita pubblica e privata di Mussolini (Luca Marinelli) dalla nascita del Fascismo (1919) al Delitto Matteotti (1924).

Invece la serie comincia con un invadente sfondamento della quarta parete; scelta discutibile che negli episodi successivi scema. Tuttavia, quel voltarsi verso la cinepresa costruisce una complicità tra il personaggio storico e lo spettatore. Uno spettatore che diventa attivo con l’infrazione della Legge numero uno del cinema classico. In più la regia internazionale di Wright colora l’estetica della serie in modo originale, come Caravaggio alle spalle di una Chiesa in guardia su un sepolcro barocco. M – Il figlio del secolo non è una serie silenziosa e non manca di riferimenti all’attualità. Come il «Make Italy great again» detto da un Mussolini appena diventato premier e le camicie nere simili a dei naziskin a un concerto punk. Mussolini, come nella trasposizione teatrale di Popolizio, è il vero figlio del secolo: dall’invidia per D’Annunzio alle macchinazioni di Sarfatti e «Cesarino», si rivela solo un ingranaggio inevitabile di quell’Italia postbellica. Non è architetto del suo destino, ma un pesce mosso dal flusso del fiume. E questo fiume si chiama Storia.


The 8 Show, Stagione 1, Netflix (Han Jae-rim) – Recensione di Viola Vismara

The 8 Show è un K-drama che mescola satira sociale e dramma psicologico, esplorando fino a che punto ci si spinge per ottenere ciò che si desidera. Sebbene condivida alcune analogie con Squid Game, le due serie si differenziano nel tono e nel livello di spettacolarizzazione. Mentre Squid Game è caratterizzato da un’azione e da un ritmo accattivante, The 8 Show si distingue per una critica dissacrante che evidenzia la crudeltà e la ferocia della natura umana.

La trama si sviluppa attorno a un game show in stile Grande Fratello, dove otto partecipanti sono costantemente ripresi da telecamere mentre sono rinchiusi in un edificio a otto piani. Un pubblico pagante, oltre a osservare, ha anche il potere di decidere la durata dello show. Ogni partecipante guadagna più denaro con il passare del tempo e, soprattutto, in base al piano che occupa: i piani più alti offrono montepremi di gran lunga maggiori, riflettendo il classismo radicato nella società sudcoreana. Senza regole precise e costantemente sotto l’occhio delle telecamere, i protagonisti iniziano con intenti collaborativi, ma ben presto si spingono a pratiche sempre più crudeli per intrattenere il pubblico invisibile e accumulare denaro. Ogni personaggio è identificato dal numero del piano, e sebbene non vengano approfonditi (eccetto il protagonista), la serie crea un esperimento sociale in cui la solidarietà iniziale si trasforma in egoismo e crudeltà, alimentata dalla necessità di compiacere il pubblico e guadagnare di più. Il gioco diventa una riflessione amara sulla disumanizzazione e sulle disuguaglianze sociali, offrendo uno spietato ritratto di una società sudcoreana (e di una natura umana) sempre più cinica.


The Buccaneers, Stagione 1, Apple TV+ (Katherine Jakeways) – recensione di Matilde Elisa Sala

Un gruppo di giovani ragazze americane, inclini al divertimento e fortemente legate l’una all’altra, si trasferiscono a Londra per cercare di trovare marito. Molto benestanti, l’obiettivo è presentarsi nel migliore dei modi alla società inglese e fare un debutto memorabile. C’è chi vuole sembrare la perfetta moglie e chi non ha paura di dire ciò che pensa: ognuna di loro però dimostra sempre grande forza e voglia di affermarsi. Basata sull’omonimo, e incompleto, romanzo di Edith Warton, The Buccaneers all’apparenza potrebbe sembrare una copia più americana di Bridgerton. Non mancano di sicuro momenti di risate o da batticuore tra alcune ragazze e i rispettivi pretendenti, ma regala anche grande commozione. La serie regala un ritratto duro e allo stesso tempo fine e delicato sulla condizione femminile di quegli anni, la cosiddetta Gilded Age, 1870 circa. Un prodotto passato in sordina ma che merita di essere recuperato, a maggior ragione per la futura uscita della seconda stagione.

Matilde Elisa Sala
Studio Lettere, mentre aspetto ancora la mia lettera per Hogwarts. Osservo il mondo con occhi curiosi e un pizzico di ironia, perdendomi spesso tra le pagine di un buon libro o le scene di un film. Scrivo, perché credo che le parole siano lo strumento più potente che abbiamo.
Nina Fresia
Studentessa di scienze politiche, curiosa per natura, aspirante giramondo e avida lettrice con un debole per la storia e la filosofia. Scrivo per realizzare il sogno della me bambina e raccontare attraverso i miei occhi quello che scopro.

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