Del: 25 Marzo 2025 Di: Giulia Camuffo Commenti: 0
Gaza: la strage e l’indifferenza

Cosa ci insegna l’incontro che si è tenuto alla Statale di Milano nell’ambito del corso di Storia dei Paesi Musulmani della Prof.ssa Elisa Ada Giunchi l’11 Marzo 2025.


Il 7 ottobre 2023 il movimento Hamas con sede nella Striscia di Gaza ha attaccato militarmente Israele, uccidendo 1200 civili e prendendone in ostaggio più di 250. Da quel momento è cominciata l’offensiva israeliana, tutt’ora in corso, che ha comportato l’uccisione di più di 62,614 Palestinesi.

“A difesa della libertà di espressione che ancora abbiamo, dobbiamo studiare la Storia: non è iniziato tutto il 7 ottobre; c’è un discorso suprematista che si trova ancora alla base del Sionismo e una storia di occupazione che continua da decenni. Questo non giustifica ciò che è successo, ma ci deve aiutare a capire.”

Con queste parole la Prof.ssa Giunchi introduce l’incontro Gaza: la strage e l’indifferenza, con la partecipazione di Francesca Albanese, relatrice ONU per la Palestina, Tina Marinari, coordinatrice italiana di Amnesty International e Yara Abushab, studentessa di Gaza.

Francesca Albanese, il cui ultimo lavoro è Anatomia di un genocidio rapporto presentato all’ONU sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati dal 1967, inizia il suo intervento parlando del termine “Genocidio”.  “Ciò che si dispiega ai nostri occhi in Palestina è uno dei genocidi più facili da prevedere nella storia” ci dice Albanese. Il Genocidio è un crimine riconosciuto a livello internazionale e disciplinato dall’ Art 6 dello Statuto della Corte Penale Internazionale, lo Statuto di Roma. La CPI si occupa di giudicare la responsabilità degli individui e non va confusa con la Corte Internazionale di Giustizia che si occupa unicamente della responsabilità statale. Il Genocidio dal punto di vista giuridico si configura come una serie di atti commessi contro un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso. L’elemento che differenzia l’atto genocidario da altri tipi di condotte criminali è l’intento, che deve essere volto a distruggere, in tutto o in parte, tale gruppo. Albanese sottolinea che il genocidio è un processo, non  un atto singolo e in quanto processo si configura come una condotta collettiva. Al contrario di come si possa pensare, l’intento genocidario di Israele non è così difficile da provare.

Il governo Israeliano sostiene di avere come obiettivo quello di liberare gli ostaggi e di eliminare Hamas. La motivazione e l’intento, però, sono due cose differenti, afferma Albanese.

Basti pensare alle parole dell‘ex Ministro della Difesa Israeliano Yoav Gallant: “Adesso taglieremo i viveri, la luce, l’elettricità e il carburante a Gaza”. Se la condotta è volta a distruggere e ad affamare una popolazione, si rende manifesto l’intento genocidario, qualsiasi sia la motivazione. Il diritto internazionale umanitario individua come limite fondamentale in caso di conflitto armato proprio la tutela dei civili; tutela che non è stata minimamente rispettata dai militari israeliani. L’unica volta in cui Israele è riuscito a liberare 4 ostaggi ha ucciso 247 palestinesi,  “Chi giustifica questa operazione come legittima non riconosce il diritto alla vita dei palestinesi così come il diritto alla vita degli israeliani”, ci dice Albanese. Quando è stato commesso l’attacco del 7 ottobre Israele deteneva nelle sue carceri 5000 palestinesi, 1500 dei quali senza alcun capo di accusa. Il governo israeliano non nega la distruzione che ha portato nella Striscia, ma la giustifica. Ha giustificato la distruzione degli ospedali a Gaza sostenendo che erano delle basi militari di Hamas: anche se questo fosse vero, è davvero legittimo distruggerli?

In realtà, questa condotta, in base al diritto internazionale umanitario, disciplinato dalle quattro Convenzioni di Ginevra del 1949, rappresenta comunque una violazione delle leggi in tempo di guerra: anche quando un ospedale perde lo status di struttura protetta coloro che si trovano al loro interno non perdono lo status di civili. Va detto che Israele ha ratificato tutte e quattro le Convenzioni di Ginevra, obbligandosi a rispettare le disposizioni in esse contenute, questo almeno formalmente. Nei bombardamenti dei primi 3 mesi, ricorda Albanese, sono state uccise 250 persone al giorno e il 70% delle morti sono sempre state donne e bambini, perché questa è la demografia di Gaza (il 50% della popolazione ha un età inferiore ai 18 anni).  Il significato del titolo dell’incontro è proprio questo: l’indifferenza della Comunità Internazionale di fronte ad una strage.

Tina Marinari, la seconda relatrice dell’incontro, racconta il rapporto di 300 pagine di Amnesty International pubblicato il 5 Dicembre 2024 in cui viene documentato, attraverso una ricerca sul campo, in che modo Israele stia compiendo un genocidio. Uno dei tanti elementi osservati nel rapporto sono stati gli attacchi militari israeliani: nella maggior di essi non era presente un obiettivo militare riconosciuto e identificato; si tratta di attacchi che Israele ha condotto principalmente di notte, quindi quando le persone dormivano, impossibilitate a ricevere un’allerta per poter fuggire; avvenuti tramite bombe molto pesanti dai 110 kg ai 900 kg, bombe che fanno crollare un palazzo intero. La tutela dei civili è un principio che nella rapidità e brutalità di questi bombardamenti è stato completamente cancellato. Marinari si sofferma sul titolo del rapporto: “You Feel Like You Are Subhuman”; con queste parole un cittadino gazawi descrive l’omicidio di almeno 30 persone della sua famiglia. Di fronte a queste brutalità sembra che la vita dei palestinesi non valga più nulla e per nessuno. “Perchè si parla di un “Genocidio in diretta”? Perché la distruzione totale avviene sotto gli occhi di tutti”, afferma Marinari.

Le statistiche individuate nel rapporto di Amnesty ci dicono che ogni 17 metri a Gaza c’è un palazzo che è stato distrutto o danneggiato, ma sono state distrutte anche le fognature, le condotte elettriche, i campi dove poter coltivare: qualsiasi struttura necessaria alla sopravvivenza umana.

“All eyes on Rafah” fu uno dei tanti slogan politici che venne diffuso sui social. Il Valico di Rafah segna la frontiera della Striscia di Gaza con l’Egitto ed è l’unico Valico che non conduce in Israele: rappresentava l’unico contatto rimasto con l’esterno e l’unico punto da cui entrano gli aiuti umanitari. Tuttavia, dopo l’inizio dell’attacco armato, Israele ha spesso impedito l’uscita dei feriti dal Valico e bloccato l’entrata degli aiuti umanitari: c’erano giorni a Gaza in cui entravano solo 35 camion. Inoltre, ciascuno veniva sottoposto a un controllo serrato da parte dei militari israeliani: se anche solo un prodotto non andava bene, l’intero camion non poteva entrare. Alcuni palestinesi hanno raccontato ad Amnesty di aver avuto da mangiare unicamente erba selvatica o foraggio per animali. A tutto questo vanno aggiunti gli ordini di evacuazione: Amnesty ne ha analizzati 59 osservando come spesso fornissero indicazioni con confini contrastanti fra loro, tramite Qr code o avvisi per telefono, in un luogo in cui non è presente una comunicazione continuativa. Ci sono testimonianze di palestinesi evacuati fino a 10 volte, accampati sulla spiaggia, gli uni sugli altri, senza nessuno spazio e nessun limite alla perdita della dignità umana.

A ciò si aggiunge il fatto che la maggior parte delle persone che risiede oggi a Gaza sono persone arrivate lì dopo la “Nakba”, letteralmente la “Catastrofe” del 1948, avvenuta durante la prima guerra arabo-israeliana che ha condotto alla nascita dello Stato di Israele e alla diaspora di massa di oltre 700.000 Palestinesi. Ciò che testimoniano molti anziani gazawi è che mai avrebbero pensato di rivivere la stessa situazione di tanti anni fa. “La realtà dei Palestinesi a Gaza è la realtà di chi vive senza mai sentirsi al sicuro”, ci dice Marinari. Nei confronti dei Palestinesi è stato utilizzato un linguaggio disumanizzante fin da subito: “Un’intera nazione è responsabile del massacro”, ha dichiarato il Presidente israeliano Hertzog, suggerendo che a Gaza siano tutti colpevoli e che tutti, di conseguenza, vadano uccisi o affamati. Sono stati diffusi video sui social di militari israeliani che festeggiano quando distruggono le scuole e gli appartamenti, che festeggiano compiendo crimini di guerra.

Yara Abushab, studentessa di Medicina nata e cresciuta a Gaza, è l’ultima a portare la sua testimonianza. Racconta la storia della sua vita: “Ho capito cos’era la guerra nel 2008 quando iniziarono a bombardare la Striscia; vedendo i medici aiutare tutte quelle persone, ho capito subito che sarebbe stato quello che avrei fatto nella vita”. 11 anni dopo Abushab si iscrisse a Medicina all’Università di Halazar. Nel 2023 fece domanda per uno scambio universitario in Italia della durata di 1 mese e arrivò il 1 ottobre a Chieti. Per la prima volta Abushab riuscì ad uscire dalla Palestina; ad oggi non ci torna da 552 giorni. In ogni casa palestinese c’è una borsa con documenti, vestiti e cibo in attesa della “chiamata israeliana”, ci racconta Abushab. La sua famiglia viveva nel Sud della Striscia, ma quando a dicembre venne considerata zona militare e evacuata, il nonno, la zia e i cugini di Yara Abushab rimasero. “Nel ‘48 gli israeliani mi dissero che dovevo andarmene e che sarei tornato qualche giorno dopo, ma non sono mai più tornato a casa. Ora non me ne andrò di nuovo”, sono le parole del nonno riportate da Abushab. I suoi genitori, insieme alla sorella e al fratello, arrivarono a Rafah e persero qualsiasi notizia sulla parte di famiglia che era rimasta al Sud.

Questo fino a quando non tornarono, una volta cessato l’ordine di evacuazione. Non riuscivano più a riconoscere né le strade, né i palazzi e la loro casa era solo per metà in piedi, usata come punto militare dai soldati israeliani. Dopo qualche settimana una vicina comunicò al padre di Yara Abushab di aver trovato una mano nel suo giardino; era il corpo di una donna insieme ai suoi 4 bambini: si trattava della zia e dei suoi figli. Tutto questo le venne raccontato una volta che la sua famiglia riuscì ad arrivare in Italia. A ottobre 2023, all’inizio dell’attacco, la ragazza andò in questura per ottenere asilo politico; pensava che si sarebbe laureata a Gaza l’anno successivo, ora si laurea, ma alla Statale di Milano. Il 31 dicembre 2023 iniziò una raccolta fondi per fare uscire la sua famiglia dalla Striscia e farla arrivare al Cairo. Riuscì a raggiungere la cifra richiesta e i genitori, la sorella e il fratello fuggirono ad aprile 2024; poco dopo il Valico di Rafah venne chiuso per chiunque volesse scappare, fino ad oggi. La sua famiglia ora vive a Milano, con lei, con la consapevolezza che forse a casa non torneranno più. L’incontro si conclude con queste parole: “Se sei palestinese, sai che devi trovare una ragione per vivere, perchè te la meriti”.

Giulia Camuffo
Studentessa di Scienze Internazionali, appassionata di storia, in relazione al presente. La scrittura semplifica ciò che semplice non è.

Commenta