Del: 15 Marzo 2025 Di: Leonardo Donatiello Commenti: 0
Giradischi, speciale Sanremo febbraio 2025

Il 15 di ogni mese, 5 album per tutti i gusti: Giradischi è la rubrica dove vi consigliamo i dischi usciti nell’ultimo mese che ci sono piaciuti.


La mia parola di Shablo, Guè, Tormento e Joshua

Canzone di strada di Leonardo Donatiello

Un ritorno all’origine della musica black, un salto nel passato per ridare linfa culturale all’hip hop italiano, La mia parola di Shablo è tutto questo, una fusione tra influenze soul e blues sul palco di San Remo. Ad accompagnarlo in questa sfida gli amici di una vita, Guè e Tormento, ma anche una voce giovane e fresca, come quella di Joshua, una delle sorprese del Festival. Spesso si dice che il rap italiano abbia smarrito la sua identità, le proprie radici culturali, che si sia “venduto” al pop sia musicalmente che contenutisticamente. Si sostiene che la cultura black, cardine di questo movimento, abbia perso la sua spinta generatrice. Se in parte è vero, bisogna dire che è anche fisiologico, più passa il tempo più la memoria diventa un semplice ricordo. Tocca dunque a qualcuno renderla storia condivisa. In questo caso Shablo ha voluto prendersi questa responsabilità e fare un tributo a tutto il movimento, su un palco che notoriamente è stato simbolo di altri generi musicali. Tutti gli ospiti del brano hanno dato il loro contributo usando “la propria parola” per rendere la traccia riconoscibile. Joshua con il suo timbro, Guè con il suo flow e Tormento con i molteplici riferimenti al mondo dell’hip hop “È rap, è blues, è gin and juice/Fai il mio nome tre volte, Beetlejuice/Suona ancora più forte, bad and boujee”. Shablo è stato il direttore d’orchestra, ha diretto la sua opera sia musicalmente sia simbolicamente. Il vero obiettivo, infatti, non era focalizzato sul presente ma sul futuro: cercare di influenzare le nuove generazioni attraverso la cultura, per descrivere il mondo di oggi con altri mezzi e con uno sguardo al passato, senza giudizio o conservatorismo, ma con il solo gusto per la riscoperta.


Il ritmo delle cose di Rkomi

Tutto scorre di Leonardo Donatiello

“Voglio trovare un po’ di equilibrio nella mia vita” quante volte ci siamo detti questa frase, quante volte è stato il mantra dei nostri buoni propositi per il nuovo anno. Ogni volta la stessa storia, vogliamo l’equilibrio e poi scopriamo che nella vita esiste anche il caos. Quel disordine è fastidioso eppure ci attrae, non riusciamo a fare a meno di salire e scendere, come le azioni in borsa. Forse bisogna solamente arrendersi al ritmo delle cose, al respiro dello scorrere inesorabile del tempo. Come dice Rkomi in un intervista per presentare Il ritmo delle cose, brano in gara al Festival di Sanremo, “Arrivi a un punto nella vita in cui ti rendi conto che le cose hanno il proprio ritmo, che un punto fermo non c’è mai ma cambia costantemente, in un bilanciamento tra alti e bassi”. È un’accettazione, ogni cosa ha il suo tempo, controllarlo è impossibile, bisogna conviverci. Spesso non si accetta che le cose finiscano, che qualcosa possa andare storto, pure se ci abbiamo messo noi stessi. “È un violento decrescendo” canta Mirko, proprio a rafforzare l’immaginario di qualcosa che si scarica, come una relazione o un sogno. Rkomi vuole semplicemente raccontare il ciclo della vita, i suoi cambi di corrente e i suoi imprevisti. Questa però non è semplicemente rassegnazione, c’è anche della bellezza nel ritmo delle cose, nella caoticità del cosmo. La nostra stessa esistenza è stata forse un imprevisto. Mirko ci dice nella sua malinconia di abbandonarci al divenire, a quel fiume in cui tutto scorre, e in cui tutto cambia.


Volevo essere un duro di Lucio Corsi

Un inno alla fragilità contro il perfezionismo di Alexia Ioana Branzea

In un’era dominata dal perfezionismo, il cui focus è quello di apparire sempre impeccabili e altamente performanti, in cui le emozioni sono da tenere a freno sotto una stoica facciata di imperturbabilità, simbolo, forse, dell’inizio di una transizione epocale, è stato il distinguersi del giovane cantautore grossetano Lucio Corsi, con il suo brano Volevo essere un duro, un inno all’insegna della fragilità.

Ciò di cui Lucio parla fin dalla prima strofa, cantando: “Volevo essere un duro / Che non gli importa del futuro / Un robot”, ben riassume quello che noi ragazzi e giovani adulti di oggi spesso proviamo veramente: da una parte, un forte desiderio di essere infallibili e indistruttibili come delle macchine, dei robot per l’appunto; dall’altra, un insopprimibile senso di ansia poiché, in realtà, del futuro, così precario dinanzi ai nostri occhi, ci importa fin troppo. Ben presto però, con i versi: “Però non sono nessuno / Non sono nato con la faccia da duro”, realizziamo che, purtroppo o per fortuna (questo è ancora da vedersi), non siamo inscalfibili come vorremmo, che il verso: “se faccio a botte le prendo” la maggior parte delle volte vale anche per noi, e che, dunque, quella di essere un duro non può altro che essere solo una dissimulazione, una maschera. E tuttavia, alla fine della medesima prima strofa, prima di essere gettati in un ritornello dal sapore dolceamaro, veniamo come introdotti a un positivo cambio di prospettiva: “Ma non ho mai perso tempo / È lui che mi ha lasciato indietro”, dove acquisiamo consapevolezza del fatto che non c’è bisogno di colpevolizzarsi se non siamo così immancabilmente perfetti come il mondo pare volerci. Solo in seguito, nel corso dell’intera canzone, tale consapevolezza si tramuta in vera e propria accettazione, ben riassumibile dai versi del ritornello finale e dell’outro: “Io, io volevo essere un duro / Però non sono nessuno / Non sono altro che Lucio”, punto in cui siamo ormai certi del fatto che “in fondo, è inutile fuggire dalle tue paure”, come si canta nel bridge, e quindi possiamo deporre la maschera una volta e per sempre ed essere, finalmente, nulla al di fuori di noi stessi. D’altronde, Lucio stesso, in un’intervista, ci ha detto: “spesso non si riesce a diventare ciò che si sognava di essere, ma […] altrettanto spesso si sogna qualcosa che in realtà non è tanto meglio di ciò che siamo già”.


L’albero delle noci di Brunori Sas

Di Carlotta Brugin

Brunori è salito per la prima volta sul palco di Sanremo con L’albero delle noci, brano che dà il titolo al suo album, pubblicato subito dopo il Festival. La canzone, dedicata a sua figlia Fiammetta, è un dolce racconto di un padre che prova a spiegare il mondo alla sua bambina. In molte zone della Calabria, terra natale di Dario Brunori, era tradizione che il padre piantasse un albero di noce alla nascita di un figlio. Questo gesto aveva un significato simbolico profondo: rappresentava un augurio di prosperità e un legame con il futuro, oltre a simboleggiare un’eredità concreta, come la possibilità di ricavarne mobili. Inoltre, si credeva che l’albero avrebbe offerto protezione e accompagnato la vita della persona per cui era stato piantato. Nel testo, Brunori confessa come, prima di diventare padre, fosse difficile orientarsi nella vita. Ora, però, non ha più bisogno di una stella polare, perché è Fiammetta a guidarlo attraverso le incertezze e le difficoltà. Brunori vuole raccontarle della notte che arriva e del giorno che muore, ma senza spaventarla, scegliendo parole delicate, che preservino la sua innocenza. Un’innocenza che appartiene solo ai bambini e che permette loro di vedere il mondo come un luogo pieno di meraviglia e possibilità. Forse, con questa canzone, Brunori vuole ricordarlo anche a noi adulti: che la vita può essere guardata con occhi diversi, senza lasciarsi sopraffare dal dolore. L’albero delle noci è così una poesia gioiosa, un inno alla felicità e alla sua ricerca nelle piccole cose e nell’amore.


Eco di Joan Thiele

Di Alice Pozzoli

Bellissima sorpresa da parte di Joan Thiele che nel suo primo Sanremo dona un pezzo dalle sonorità che si discostano da quelle di altri lavori precedenti dell’artista.La cantante di origini italo-colombiane, infatti, nelle sue produzioni precedenti ha esplorato generi diversissimi; il primissimo lavoro della cantautrice, un EP che porta il suo nome, Joan Thiele (2016) unisce sapientemente testi pop in lingua inglese a referenze rap, come il pezzo lost ones. Il primo album in studio tango (2018) interamente in lingua inglese ed è caratterizzato da stili diversi con arrangiamenti dance (come la hit polite) e timbri anni ’60; l’ EP operazione oro (2020) invece fonde melodie elettroniche all’indie, con testi in italiano. Sin dalle prime note si può scorgere un’influenza western, fusa ad un ritmo ipnotico che accompagna l’ascoltatore tra le parole del testo. Un racconto dolce, profondo ed evocativo della vita dell’artista, il rapporto con la sua famiglia e in particolare con il fratello, al quale la canzone è dedicata e i suoi viaggi. Thiele, infatti, ha trascorso la sua infanzia tra Cartagena, Colombia e Desenzano del Garda, per poi trasferirsi in Inghilterra e stabilirsi in seguito a Milano. Nel ritornello il ritmo diventa graffiante, rivendicativo, l’artista rimarca con orgoglio le sue origini e afferma la potenza delle sue idee. Nonostante si tratti di un prodotto indie, la raffinatezza di questo pezzo lo contraddistingue in maniera netta dalla produzione italiana di questo genere. Il ritmo è originale e si discosta straordinariamente da tutta la produzione indie italiana. Joan Thiele è una gemma nascosta nel panorama italiano, artista di grande esperienza e spessore che finalmente grazie a questo festival ha avuto la possibilità di farsi conoscere ai più.

Leonardo Donatiello
Laureato in storia, attualmente frequento la facoltà di scienze storiche. Mi reputo una persona pacata e tranquilla, ma stranamente mi attrae il disordine. Non è dunque un caso che io sia un grande fan della Prima repubblica. Nel tempo libero mi occupo di politica e sport principalmente, ma ho anche un debole per la musica hip hop.

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