Del: 9 Marzo 2025 Di: Michele Cacciapuoti Commenti: 0

Il femminismo non è solo una questione femminile: dovrebbe interessare agli uomini perché interessa gli uomini.

Questo per più motivi. Partendo dai più periferici: da un punto di vista altruista, è giusto lottare anche per ciò che non ci riguarda, al di là del proverbiale “orticello”; inoltre, egoisticamente parlando, da una prospettiva cioè pragmatica e forse un po’ cinica, è utile lottare anche per ciò che non ci riguarda. Nel momento in cui qualcuno viene privato dei propri diritti, infatti, si crea un precedente che mette potenzialmente a repentaglio anche i miei diritti. Conviene dunque a tutti, nella società, preservare i diritti di tutti (ed ecco che l’egoismo sfuma).

Il motivo più centrale, però, è un altro: quanto detto finora si applica effettivamente anche a ciò che non ci riguarda. La parità di genere e il femminismo, tuttavia, riguardano anche gli uomini e non in modo secondario, ma sono due facce della stessa medaglia. Nello stesso momento in cui la donna viene costretta in una posizione sociale e culturale di subordinazione e fragilità, infatti, l’uomo viene costretto in un’altrettanto stereotipata posizione machista, di mascolinità tossica.

Essere rinchiusi in un’idea ben precisa di maschio è limitante, perché non permette di crescere e scoprire la propria identità basandosi su autostima e amore per se stessi.

Non poter mai piangere, non poter chiedere aiuto, non doversi mostrare sensibile sono gabbie psicologiche, che portano all’unica espressione emotiva concessa a questo genere: la rabbia. Non è un caso che le persone più irascibili siano uomini e che le donne, al contrario, fatichino ad esprimere questa emozione.
In fondo, un tempo la posizione privilegiata maschile era conveniente: uno stipendio importante, una macchina, una casa e una famiglia erano le fondamenta della vita tradizionale. La vita del padre di famiglia aveva una sola parola d’ordine: controllo. Controllo di ciò che veniva comprato, come venivano spesi i soldi, come arrivavano i soldi, controllo sulla moglie, sui figli, su qualsiasi aspetto della vita.


Ad oggi le cose sono cambiate, a partire dagli aspetti economici. Non esiste più che una persona della classe media possa sfamare l’intera famiglia con un solo stipendio, molto spesso le macchine vengono comprate usate e le mogli sono sempre più emancipate in un modello di femminilità diverso dal passato. Non abbiamo più donne disposte a rinunciare alla carriera per curare la casa ed i figli, ma persone che vogliono autorealizzarsi nei modi più disparati, giunte a questo punto grazie a 50 anni di lotte femministe, che hanno tolto il genere femminile da una condizione di eterno servizio verso il maschile.


A questo punto, dove si colloca l’identità dell’uomo di oggi? Che cosa significa per noi essere un “uomo”?
Ognuno avrà una risposta differente, ma l’aspetto più evidente è come ci sia una crisi dell’identità maschile. Se ad oggi non si può più essere “uomini di un tempo” sia da un punto di vista economico, che da un punto di vista di sensibilità diverse e di impossibilità di controllare ogni cosa, dove si colloca l’identità in formazione di chi viene educato da altri uomini ad essere un “uomo vero”? Il risultato sono persone che si sentono costantemente inadeguate e fuori dai tempi: il modello tradizionale di mascolinità è messo in crisi e si oscilla tra il seguire le vecchie regole , il rischio di essere etichettati come omosessuali se si esce dal tracciato o il rischio di essere chiamati retrogradi dalle donne emancipate.
Anche nel mondo del lavoro le donne hanno fatto moltissimi passi avanti e gli uomini si sentono nuovamente inadeguati: abituati alle battutine a sfondo sessista e ad avere la segretaria al proprio capezzale, non si capacitano di dover finalmente rispettare una donna che può avere posizioni di potere tali e quali alle sue.
Il mondo sta cambiando, le donne non sono più quelle di una volta, ma gli uomini? Sono sempre gli stessi.

Molte dinamiche realmente preoccupanti (il tasso di depressione e suicidi nel genere maschile, o il fenomeno degli hikokomori) vengono spesso citate a sproposito in alcuni ambienti conservatori e anti-femministi (se non incel), che li riducono a una “misandria” inquadrata come una forma di “sessismo al contrario”. In sostanza, basta con il femminismo perché il vero problema riguarda gli uomini.

E invece (pur senza compiere indebite generalizzazioni) in buona parte dei casi sono proprio i presupposti femministi – di lotta contro gli stereotipi di genere e la mascolinità tossica– a rappresentare la chiave culturale nella risposta a questi fenomeni.

In fondo è molto facile prendersela con le femministe: vengono presentate come pazze che si aggrappano a problemi inesistenti e che odiano gli uomini. Ci sono sicuramente frange femministe anti-uomini, ma sono sempre state una minoranza (che è stata ripresa dai media ed è diventata simbolo dei movimenti). Gli stereotipi sono molti e allontanano il focus dal messaggio, spostandolo sulle personalità singole che non si nega possano avere posizioni come queste. Avere un capro espiatorio, però, non significa che la condizione maschile sia semplice. Ad esempio, la maggioranza dei suicidi è di uomini e di violenza maschile si parla molto poco, perché porre attenzione alla salute mentale è ancora vista come un segno di debolezza, figuriamoci chiedere aiuto quando subisci violenza da una donna.

Capita che, da una prospettiva maschile, parte della retorica femminista venga vissuta con fastidio, come troppo aggressiva e colpevolizzante. Spesso, chi avanza questa critica tende a porsi in modo paternalista (e da ally, alleato esterno, mentre come si è detto la lotta femminista riguarda tutti e tutte).

Da un punto di vista etico, ha poco senso chiedere che una lotta sia morbida e gentile: andrebbero naturalmente evitate l’inciviltà (da un punto di vista formale, di modi) e le semplificazioni demonizzanti (da un punto di vista contenutistico), ma lotte e proteste non possono essere ideologicamente concilianti e carezzevoli.

Da un punto di vista pragmatico, a seconda dell’uditorio può forse essere utile modulare retorica e tonalità, ma non è vero a priori: se il messaggio perdesse quella che viene percepita come “colpevolizzazione” (e a cui si risponde con not all men, a sproposito), il risultato sarebbe deresponsabilizzante e mancherebbe il punto. Che, se si passa il latinismo, non riguarda gli uomini come omnes (come se ogni singoli individuo fosse in sé colpevole), bensì come cunctus, universus o totus (una totalità che, nel suo insieme, dà adito a fenomeni sistematici).

In realtà nelle lotte femministe ci sono stati uomini che hanno sostenuto la causa, nonostante inizialmente fosse complicato, perché le donne manifestavano per scappare da uomini violenti e, quindi, si tendeva a generalizzare la colpa sull’intera categoria maschile. Questo è una colpa del femminismo, come dice Bell Hooks nel libro Il femminismo è per tutt, “il femminismo ha fallito nell’attirare a sé un gran numero di donne e uomini”, sicuramente per un atteggiamento che è stato ostile nei confronti di alleati che provenivano dalla stessa categoria di oppressori da cui ci si era liberate. Anche qui era sicuramente più semplice dividere la questione in oppresse e oppressori, a livello psicologico pone un confine definito tra “noi” e “loro”, ma è una polarizzazione.
Esistono uomini femministi, così come esistono donne conservatrici che non hanno alcun interesse nel portare avanti le questioni di genere e ne abbiamo esempi attuali in grande stile.
Oggi ci sono nuove consapevolezze che vanno portate a galla, perché ci è chiaro come anche per gli uomini non è semplice vivere in un sistema che ha un’idea ben precisa di cosa è un uomo.

Parlare di femminismo, quindi, non dovrebbe essere escludente per gli uomini, perché la conseguenza è l’allontanamento della questione.

Tutte e tutti beneficiamo da una lotta per pari diritti e pari opportunità, perché i diritti non sono una coperta da tirare un po’ da un lato e un po’ dall’altra, se una donna o una persona della comunità LGBTQIA+ ottiene libertà in più, non significa che verranno sottratte ad un uomo.
“Ma io non ho mai picchiato nessuna donna e mai lo farei!” Questo è chiaro, ma giornate come l’8 marzo non sono un’accusa in pubblica piazza ad ogni singolo uomo, che deve sentirsi in dovere di cancellare le proprie colpe con un bel mazzo di mimose alle donne che conosce. Proprio in occasioni come queste dovrebbe emergere come la società sta cambiando, le donne sono cambiate ed è arrivato il momento che inizi una discussione sulla mascolinità, tra uomini che decidono di mettersi in gioco. In fondo il movimento femminista è iniziato così: alcune donne si sono ritrovate e si sono chieste come cambiare il ruolo tradizionale che avevano ereditato dalla società, si sono sedute ad un tavolo e hanno definito punto per punto cosa volevano sradicare. E da quel punto ci sono stati tantissimi cambiamenti, sempre di più nonostante ci siano frange molto conservatrici anche oggi. Un percorso diverso può essere quello degli uomini, che possono mettersi ad un tavolo e decidere se l’idea di mascolinità che hanno ereditato dal passato funzioni ancora, ma questo avviene solo se diventa un problema collettivo e non qualcosa che si pensa di nascosto dopo una serata a calcetto in cui un amico spudorato ha appena finito di raccontare quanto sia bravo a trattare male le ragazze.

Michele Cacciapuoti
Laureato in Lettere, sono passato a Storia. Quando non sto guardando film e serie od osservando eventi politici, scrivo di film, serie ed eventi politici.
Jessica Rodenghi
Jessica, attiva nel mondo e nelle società, per fare buona informazione dedicata a tutti e tutte.

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