
Quasi 10 anni fa si svolgeva in Grecia un referendum di vitale importanza sull’accordo tra governo greco e le proposte avanzate dai creditori internazionali (su tutti la Commissione europea, la BCE e il Fondo Monetario Internazionale).
Pochi avrebbero scommesso sul fatto che nel giro di pochi anni la Repubblica Ellenica si sarebbe trasformata in una delle economie più veloci della media UE.
Tentando di riavvolgere il nastro, al crollo della Dittatura dei colonnelli, nel 1974, salì al potere Konstantinos Karamanlis del partito di centro-destra Nuova democrazia, il quale cercò di trasformare il paese dotandolo di infrastrutture e migliorando gli investimenti nell’ottica di entrare nella Comunità Economica Europea.
Le elezioni del 1981 vennero tuttavia vinte dal leader del PASOK (movimento socialista panellenico) Andreas Papandreou, a dirla tutta facendo leva su logiche clientelari e populiste. Infatti nel giro di pochi anni il numero di dipendenti pubblici passò da 510000 a 786200 con una popolazione rimasta invariata, la loro retribuzione aumentò e superò quella dei dipendenti privati e di pari passo la stessa per l’erogazione delle pensioni. Il debito pubblico passò dal 22,5% del 1979 al 73,2% del 1990.
Tuttavia per arrivare al culmine della crisi greca bisogna aspettare l’ottobre del 2009 all’indomani dell’insediamento del figlio di Andreas, George. Egli ammise che i bilanci pubblici forniti nel decennio 1990-2000 (dal Trattato di Maastricht in poi circa) erano tutti falsificati, al fine di ottenere l’ingresso della Grecia nell’eurozona.
Con un rapporto deficit/PIL che aumentò dal 3,7 al 12,7% tale dichiarazione fu solo l’inizio di una spirale negativa.
Alla luce di ciò i mercati iniziarono a dubitare della capacità della Grecia di finanziare il proprio debito, così le agenzie di rating declassarono i titoli di stato a livello spazzatura. Di conseguenza i tassi di interesse crebbero enormemente.
Si arrivò vicino al default tra il 2009 e il 2010 col paese che perse il 29,5% del proprio PIL reale e la disoccupazione che passò dal 9,6 al 27,5%.
Quindi, nonostante la Grecia avesse apertamente violato le regole comunitarie sulla spesa, l’UE non poteva permettere il fallimento dello Stato e così si cercò di concordare dei piani di salvataggio: il primo nel 2010 prevedeva un aiuto di 110 miliardi di euro in cambio di alcune misure di austerità: l’aumento dell’iva, il taglio della spesa pubblico-previdenziale e una maggiore facilità dei licenziamenti nel settore privato.
Di fatto la Grecia non mantenne l’esclusività della propria politica economica in quanto monitorata a stretto giro dalla Troika, organo che congiunge Commissione europea, BCE e Fondo Monetario Internazionale.
Effettivamente il deficit fu ridotto del 40% nello stesso anno ma le misure di austerità non furono ben accolte dal popolo che scese in piazza con violente proteste.
Un secondo piano venne alla luce nel 2012 con 130 miliardi di euro in cambio di un nuovo pacchetto di norme di austerità come la riduzione del 22% degli stipendi minimi, le privatizzazioni e il licenziamento di 150 mila dipendenti pubblici
Il terzo piano venne approvato nel 2015, anno della vittoria alle elezioni del movimento di sinistra radicale Syriza col suo leader Alexis Tsipras. Egli indisse un referendum per consultare i cittadini sull’accettazione del terzo piano di aiuti.
Il popolo si espresse al 60% per il no. Un no che suonava tanto di contestazione agli organi comunitari, rei, secondo i cittadini, di aver messo da parte le esigenze del popolo, effettivamente rimasto inerme sia di fronte alle misure di austerità calate dall’alto sia alle scellerate politiche economiche degli anni precedenti.
A nulla però servì il voto popolare in quanto lo stesso Tsipras fu costretto ad accettare il piano di salvataggio in seguito ad ulteriori tagli alla spesa pubblica, privatizzazioni di asset statali e riforme del mercato del lavoro.
Nel giro di un paio di anni il risparmio ammontava a 12 miliardi di euro così da concludere i tre pacchetti di aiuti internazionali. Nel triennio 2017-2019 si è misurata una crescita del PIL tra l’1,1 e l’1,9%.
Nell’agosto del 2022 si è definitivamente conclusa la sorveglianza europea, con la decisione della Commissione europea che ha ritenuto non più giustificato il controllo stretto nei confronti di Atene, poiché il governo ellenico ha restituito in anticipo l’ultima tranche del prestito ricevuto dal Fondo Monetario Internazionale.
A guardare i dati odierni da un punto di vista meramente macroeconomico sembra che la situazione sia nettamente migliorata. Infatti secondo i dati Elstat (agenzia di statistica greca) dal 2019 ad oggi la disoccupazione è calata dal 18% a meno del 10%, Il salario minimo e medio è aumentato più dei prezzi, così come il PIL pro capite reale è cresciuto a un ritmo doppio rispetto alla media dell’UE e tre volte superiore a quella dell’Eurozona.
Trarre un bilancio non risulta agevole perché se da un lato è vero che da qualche anno si assiste ad un trend più che positivo dall’altro lato non si possono non citare le ricadute socio-economiche che l’austerity ha provocato: la distruzione pressoché totale del welfare a cominciare da ospedali e scuole, una sequenza di quindici riforme pensionistiche che hanno portato ad un taglio di oltre il 30% delle pensioni dei greci oltre ad una massiccia campagna di privatizzazione di buona parte degli asset statali tra cui la vendita del porto del Pireo ai cinesi, l’ingresso dei francesi nel settore energetico e idrico, del gruppo FS italiane nelle ferrovie greche e dei tedeschi nella gestione dell’aeroporto di Atene.
Altro problema, che coinvolge anche il nostro paese, è l’esodo massiccio della popolazione.
Circa 500 mila giovani altamente qualificati hanno lasciato il paese nell’ultimo decennio, rendendo così la Grecia il paese dell’eurozona con il numero maggiore di over 65 (22%). Anche questo è eredità della crisi e dell’austerity: i continui tagli all’istruzione non hanno fatto altro che svalutare la scuola e l’università pubblica contribuendo così ad assenza di prospettive nel futuro che porta alla cosiddetta «fuga dei cervelli» e quindi al calo demografico.
Vi è però da considerare in positivo il peso del turismo sull’economia nazionale che resta fondamentale: occupa un quinto del PIL, un quarto dell’occupazione. Certamente esso si conferma un punto fermo nell’economia greca, ma è evidente che un’economia nazionale che si basi essenzialmente su quello non può che essere fragile e soggetta nel lungo periodo a rischi geopolitici e climatici.
La Grecia per rinforzare e consolidare i buoni dati macroeconomici attuali ha bisogno di sviluppare settori in cui gli investimenti sono più a lungo termine come i progetti infrastrutturali e la produzione.
Concludendo questa analisi viene da chiedersi se questa crisi si sarebbe potuta affrontare meglio. A tal proposito nel 2022 l’ex presidente della commissione UE Jean Claude Juncker ha rilevato che l’Unione europea è stata troppo severa verso la Grecia nel gestire la crisi, altri invece che le politiche di austerity hanno contribuito a quel rilancio di cui si è parlato.
Articolo di Edoardo Ansarin