
A seguito del conflitto armato scoppiato nella Striscia di Gaza il 7 ottobre 2023 tra Israele e Hamas (acronimo di Ḥarakat al-Muqāwama al-Islāmiyya, ovvero “Movimento Islamico di Resistenza”), la situazione umanitaria nella Striscia è sempre più allarmante.
Nella notte tra il 17 e il 18 marzo, l’esercito Israeliano ha ripreso i bombardamenti, interrompendo il cessate il fuoco siglato il 18 gennaio. Il Ministero della Sanità Palestinese ha dichiarato che nell’attacco sono state uccise più di 400 persone, in gran parte donne e bambini, e i feriti sono oltre 500.
Inoltre, nella notte tra il 19 e il 20 marzo, le forze militari Israeliane hanno ripreso le operazioni terrestri, occupando nuovamente il corridoio di Netzarim, da cui si erano ritirate in base all’accordo sul cessate il fuoco.
Tra febbraio e marzo si era discusso molto sul futuro post-bellico della Striscia nella Comunità Internazionale, soprattutto per via delle posizioni estremamente controverse assunte dalla nuova amministrazione statunitense con a capo Donald Trump, che ha garantito pieno sostegno al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, colpevole di crimini di guerra e contro l’umanità.
Come riportato dall’organizzazione giornalistica Associated Press, prima degli ultimi sviluppi, i governi di USA e Israele avevano contattato i funzionari del Sudan, della Somalia e della regione secessionista nota come Somaliland per discutere l’utilizzo dei loro territori come potenziali destinazioni per spostare in massa i palestinesi sfollati dalla Striscia.

Ciò avrebbe fatto parte del cosiddetto “post war plan” proposto da Trump in una conferenza con Netanyahu tenutasi a Washington il 4 febbraio. Trump aveva suggerito che i palestinesi andassero sfollati da Gaza e poi permanentemente reinsediati al di fuori del teatro di guerra; gli stessi Stati Uniti avrebbero dovuto guidare un processo più ampio di riqualificazione dell’area in quella che Trump aveva definito “la Riviera del Medio Oriente”, senza però specificare quale tipo di autorità e mezzi si sarebbero utilizzati a tal fine.
Questo piano sollevava delle questioni controverse. Innanzitutto decidere di spostare permanentemente un popolo dalla propria terra costituisce un crimine contro l’umanità: significherebbe attuare una deportazione in piena regola. Inoltre, reinsediare i palestinesi nelle regioni del Sudan, della Somalia e del Somaliland significherebbe spostare una popolazione, già stremata dalla guerra, in luoghi molto poveri e devastati anch’essi dalla violenza: in Somalia è in corso una guerra civile dal 1986 che ha condotto nel 1991 alla secessione del Somaliland, mentre in Sudan c’è una grave emergenza umanitaria dovuta al conflitto armato scoppiato ad aprile 2023.
Non sembra, quindi, che il benessere della popolazione palestinese fosse contemplato da questo piano, al contrario di come era stato formalmente dichiarato.
In aggiunta, i funzionari di Somalia e Somaliland avevano comunicato di non essere a conoscenza di questa proposta, e il Sudan di averla rifiutata. L’idea di un trasferimento forzato di più di 2 milioni di palestinesi non sembrava più essere appannaggio delle forze politiche di estrema destra presenti nella Knesset, ma una proposta concreta, definita da Netanyahu come “una visione audace”.
I palestinesi di Gaza avevano respinto fermamente questo progetto post-bellico e le nazioni arabe, tra cui Qatar, Emirati Arabi e Arabia Saudita, avevano approvato una contro proposta formulata dal Presidente egiziano Abdel Fattah el-Sisi durante un vertice tenutosi al Cairo il 4 marzo. Il piano egiziano prevedeva lo stanziamento di 53 miliardi di dollari e aveva come obiettivo quello di ricostruire la Striscia di Gaza entro il 2030 senza costringere i palestinesi a un altro esodo di massa.

Nel 1948, infatti, durante la prima guerra arabo-israeliana, oltre 700.000 mila palestinesi furono costretti allo sfollamento dalle proprie abitazioni e città a seguito della creazione dello Stato di Israele. Il popolo palestinese teme che questo doloroso capitolo della propria storia, che chiamano “Nakba” (in italiano “Catastrofe”), si stia ripetendo. D’altro canto l’Egitto e le nazioni arabe temono il ripetersi di una diaspora di massa dei Palestinesi nei loro territori.
Non c’è nessuna garanzia sul futuro post-bellico e neppure sul ritorno dei palestinesi a Gaza.
Nel concreto, la proposta egiziana prevedeva la rimozione di ordigni inesplosi e lo sgombero di oltre 50 milioni di tonnellate di macerie lasciate dai bombardamenti israeliani. Secondo una bozza di 112 pagine del piano ottenuta da Associated Press, centinaia di migliaia di alloggi temporanei avrebbero dovuto essere creati per la popolazione di Gaza durante la ricostruzione del territorio. Si prevedeva anche il riciclo delle macerie, con una parte utilizzata come materiale di riempimento per espandere la terra sulla costa mediterranea di Gaza. El-Sisi aveva affermato che l’Egitto era intenzionato a lavorare in cooperazione con i palestinesi per creare un comitato amministrativo di tecnocrati indipendenti e competenti incaricati della governance di Gaza.
Le conclusioni del Vertice tenutosi al Cairo erano state accolte favorevolmente da Hamas, ma rifiutate categoricamente da Israele.
Il piano egiziano era stato definito inattuabile anche dal portavoce del Consiglio di Sicurezza nazionale della Casa Bianca, Brian Hughes, con queste parole: “I residenti non possono vivere umanamente in un territorio coperto di detriti e ordigni inesplosi”. Anche se è evidente che non potrebbero vivere umanamente neppure nelle regioni indicate dal piano statunitense.
Ad oggi, va ricordato che l’offensiva Israeliana ha distrutto enormi aree della Striscia di Gaza, compreso gran parte del suo sistema sanitario. La guerra ha condotto circa il 90% della popolazione all’interno del territorio dove centinaia di migliaia di persone vivono in squallide tende e nelle scuole, utilizzate come rifugi.
L’ennesimo bombardamento di Israele, avvenuto pochi giorni fa, ci dice molto sui piani di ricostruzione o di “riqualificazione” della Striscia, dal momento che non ci saranno né abitazioni da ricostruire, né persone da “reinsediare”, se gli attacchi non cesseranno definitivamente.
Articolo di Giulia Camuffo