
Nelle ultime settimane è apparso chiaro a tutti il cambio lampante della politica estera statunitense. Già dalla Conferenza sulla sicurezza di Monaco di Baviera tenutasi a metà febbraio il Vicepresidente JD Vance aveva accusato i paesi europei di aver ristretto la libertà di parola e, soprattutto, aveva evidenziato la cattiva gestione del fenomeno migratorio; erano inoltre emerse discrasie sulla guerra in Ucraina tra la Presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, e il Vicepresidente statunitense, in particolare rispetto alla linea del Presidente ucraino Zelensky.
Due settimane dopo, a Washington, Zelensky è stato cacciato dalla Casa Bianca. In un dibattito tagliente e ferrato, JD Vance e soprattutto il neoeletto Presidente Donald Trump hanno sottolineato il cambio di segno rispetto alla politica estera di Joe Biden, con una forte presa di distanza dall’Ucraina e un esplicito avvicinamento alle posizioni del Presidente russo Vladimir Putin. Durante l’incontro, il Presidente ucraino Zelensky ha sottolineato le responsabilità della Russia, colpevole di aver ripetutamente infranto ogni accordo di cessate il fuoco: prima il Protocollo di Minsk del 2015, poi l’accordo raggiunto nel 2019 al Palazzo dell’Eliseo, con la mediazione di Emmanuel Macron e Angela Merkel.
Subito dopo, Zelensky è stato oggetto di accuse pesanti da parte del Vicepresidente Vance rispetto alla gestione della guerra e alla mancanza di sostegno da parte del popolo e dei soldati ucraini.
Anche il Presidente Trump ha attaccato Zelensky cercando di sottolineare, con il suo atteggiamento aggressivo, la posizione di inferiorità, oltre che di dipendenza assoluta dal sostegno statunitense, in cui si trovava il presidente ucraino ai suoi occhi.
Se, dunque, alla luce dell’incontro tra Trump e Zelensky, la visione degli Stati Uniti sulla guerra in Ucraina risulta essere chiara, non si può dire lo stesso per l’Unione europea: la risposta dei 27 stati membri rispetto al conflitto non è ancora né definitiva né unanime.
Molti Paesi europei – Danimarca, Repubblica Ceca, Finlandia, Francia, Germania, Italia, Paesi Bassi, Norvegia, Polonia, Romania, Spagna, Svezia, Regno Unito – hanno discusso circa l’opportunità̀ di costituire una “coalition of the willing” per supportare attivamente l’Ucraina.
L’espressione “coalition of the willing” è stata utilizzata dal Primo ministro inglese Keir Starmer durante l’incontro, tenutosi a Londra, tra i leader europei per discutere sul futuro dell’Ucraina. L’iniziativa, caldeggiata da Francia e Regno Unito, contempla la possibilità̀ di coinvolgere i Paesi dell’UE e della NATO nell’invio di forze sul territorio ucraino per mantenere la pace e dissuadere il Presidente russo Vladimir Putin dall’attaccare nuovamente l’Europa.
La strategia di Starmer consentirebbe ai Paesi membri della NATO di agire collettivamente senza essere vincolati alla NATO stessa: l’obiettivo è aggirare i possibili veti, all’interno del Consiglio di Sicurezza, di Stati che non condividono l’iniziativa (tra cui la stessa Russia). È interessante evidenziare che l’espressione “coalition of the willing” risale al 2003, quando il Regno Unito e numerosi altri Stati decisero di appoggiare l’invasione dell’Iraq da parte degli Stati Uniti.
Per quanto riguarda l’impegno europeo spicca il parere favorevole del Presidente francese: Macron considera cruciale il rafforzamento della difesa dell’UE e il raggiungimento di una pace che includa anche garanzie di sicurezza per l’Ucraina.
Mercoledì̀ 5 marzo, in un discorso alla nazione, Macron, dopo aver espresso le sue preoccupazioni sulla sospensione degli aiuti militari statunitensi all’Ucraina e, potenzialmente, all’intera Europa, ha definito la Russia una vera e propria minaccia: “la Russie est devenue une menace pour la France et pour l’Europe”.
Le paure del presidente francese si concentrano sulla ormai incerta sicurezza dell’Europa, sul cui territorio sono già attivi soldati nordcoreani e iraniani. Macron ritiene dunque necessario uno sforzo comune, un investimento, privato e pubblico, nella difesa e nella sicurezza: “Gli Stati europei devono essere in grado di difendersi al meglio e di scoraggiare qualsiasi ulteriore aggressione. Dobbiamo attrezzarci di più, rafforzare la nostra indipendenza in materia di difesa e sicurezza”. Il discorso si è concluso con due moniti del Presidente riguardanti la necessità di promuovere la reindustrializzazione e di estendere l’ombrello nucleare francese sull’Unione europea.
In questo scenario, la Commissione europea ha elaborato il piano “ReArm Europe”: un investimento complessivo di 800 miliardi di euro nella difesa europea.
Il Pacchetto di Difesa Europeo è stato annunciato dalla Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen il 5 marzo ed è stato approvato il 12 marzo dal Parlamento europeo con 419 voti a favore.
La Presidente von der Leyen, annunciando il piano di riarmo, ha giustificato l’investimento affermando che la pace, in Europa, non è più garantita né scontata: l’integrazione della Russia è fallita e la protezione statunitense non è più una certezza.
Il discorso della Presidente è poi diventato più tecnico, soffermandosi sul livello di spesa nella difesa dei paesi europei: è stato tagliato, passando da più del 3.5% del PIL europeo a meno della metà e, soprattutto, in termini reali, la Russia investe nelle spese militari più di tutta l’Europa.
Il piano è strutturato in cinque pilastri fondamentali: il primo pilastro ha come obiettivo aumentare la spesa militare di ogni stato da meno del 2% del PIL a più del 3% introducendo una deroga temporanea al Patto di Stabilità e consentendo investimenti per un massimo di 650 miliardi. Ogni stato arriverebbe ad aumentare il suo budget per la difesa dell’1.5% del PIL.
Il secondo pilastro si fonda sull’approvazione, da parte del Consiglio Europeo, di un nuovo strumento finanziario, il Safe-Security Action for Europe, per consentire un prestito europeo agli stati membri tramite la costituzione di un fondo di 150 miliardi destinato all’acquisto di armamenti e alla modernizzazione delle forze armate.
I prestiti dovranno finanziare acquisti da produttori europei con l’obiettivo di incentivare l’industria della difesa, tramite contratti pluriennali; al contempo, ci sarà̀ un rafforzamento degli acquisti congiunti, già attuati da Repubblica Ceca e Danimarca per fornire armi all’Ucraina.
Per poter realizzare il prestito, l’UE ha scelto la procedura di emergenza ai sensi dell’Articolo 122: tale procedura, nata per situazioni di gravi difficoltà nel reperire determinati prodotti, consente di raccogliere fondi e di effettuare prestiti agli Stati membri per investire nella difesa.
Gli ulteriori tre pilastri si focalizzano sugli incentivi all’industria della difesa, per stimolare la produzione interna europea, la cooperazione tecnologica avanzata con progetti comuni di difesa aerea e ricerca di robotica avanzata per la difesa, gli investimenti strategici a lungo termine per rafforzare l’autonomia strategica europea in un’ottica di distacco dall’ombrello protettivo statunitense e dalla NATO.
All’interno del Pacchetto vi sono delle ulteriori misure per mobilitare investimenti privati grazie alla Banca Europea per gli Investimenti e alla futura Unione del Risparmio e degli Investimenti. Per soddisfare questa domanda, sarà necessario costruire nuove linee di produzione e, di conseguenza, aumenteranno posti di lavoro qualificati nell’UE.
La risposta dell’UE, dunque, si basa su una “corsa agli armamenti” aumentando il livello di spesa militare dei 27 Stati membri.
Alcuni analisti hanno tuttavia evidenziato che il livello di spesa militare dell’UE rispetto alla Russia sia stato superiore del 19% nel 2024.
Questo dato, al centro del dibattito italiano, è frutto di un’analisi, prodotta dall’Osservatorio pubblico dei conti italiani che, il 22 febbraio, ha pubblicato un articolo di risposta al report del 12 febbraio dell’Istituto internazionale per gli studi strategici (IISS).
L’articolo, di Alessio Capacci, Carlo Cignarella e Carlo Cottarelli, evidenzia come l’Europa non spenda meno della Russia nella difesa: secondo gli autori, i dati dell’IISS risulterebbero falsati poichè sarebbe stata utilizzata una definizione di spesa per la difesa differente tra i dati russi ed europei. Per la difesa russa si fa infatti riferimento alla “Defense Expenditure”, espressione usata dalla NATO e che comprende una serie di costi; per la difesa europea, al contrario, si fa riferimento al “Defense budget”, comprendendo un insieme di erogazioni più ridotto.
Bisogna anche tenere conto del fatto che il report dell’IISS include l’Europa nel suo complesso, considerando quindi anche paesi che non aderiscono né all’UE né alla NATO: escludendo Serbia, Bosnia, Kosovo, Svizzera, i membri dell’UE e NATO spenderebbero il 55% in più rispetto alla Russia mentre i soli paesi dell’UE, tolti Regno Unito, Turchia, Norvegia, il 19% in più.
D’altra parte, sebbene sia vero che l’Unione abbia speso nella difesa, dall’inizio della guerra russo-ucraina, circa 300 miliardi di euro all’anno, più del triplo della Russia, questo divario si deve principalmente alla differenza di prezzi e salari nei Paesi europei a confronto con la Russia: gli stipendi dei soldati europei e la produzione dei macchinari e dispositivi militari ha un costo decisamente più alto, in Europa, per i prezzi maggiori delle materie prime e il rispetto dei criteri di sicurezza e, di conseguenza, in gran parte dei paesi dell’UE la spesa militare viene capitalizzata nel personale, non negli armamenti. Tenendo in considerazione queste importanti differenze, il livello di spesa tra Russia ed Europa risulta essere all’incirca eguale.
Infine, il piano di riarmo proposto dalla presidente della Commissione europea non è, come affermato nel dibattito italiano, “senza precedenti”. Di fatto, la spesa per difesa rispetto al PIL dell’UE aumenterà dall’1,9% al 3% non prima del 2028, tornando ai livelli registrati nella fine degli anni Ottanta, a conclusione della Guerra fredda.
Vi sarebbe dunque un effettivo aumento della spesa militare europea, ma ancora lontano dalle spese tipiche di un’economia di guerra: durante la Seconda guerra mondiale, vi era stata una triplicazione, quintuplicazione o addirittura deduplicazione della spesa militare degli Stati europei, pochi anni prima del 1939.