
Le opinioni espresse in questo editoriale sono esclusivamente dell’autore e non riflettono necessariamente il punto di vista della redazione.
Percorrendo come studenti i chiostri e gli spazi della nostra università nei giorni i cui a Milano si celebra l’annuale kermesse del Salone del Mobile, tutto fa pensare meno che ad attraversare spazi di studio. Da quasi 15 anni ormai la sede di via Festa del Perdono durante i 10 giorni di esposizioni si trasforma totalmente, da tempio e luogo del sapere si trasforma in vetrina e tempio della forma. Giusto il tempo di accogliere migliaia di frettolosi “turisti” a caccia, se va bene, di un’interpretazione alle installazioni spesso fallace, o ad un selfie mal scattato il più delle volte.
Ci si trova quindi a chiedersi perché un’università pubblica, segnatamente presso la sede di facoltà umanistiche, che dovrebbe fungere da culla di quel sapere frutto di scambio e di arricchimento, si trovi a mutare la propria pelle e trasformarsi in un palcoscenico per la promozione di brand privati che nulla hanno a che vedere con lo spirito universitario.
Non si sta muovendo una critica alla possibilità che la nostra università accolga designer, architetti, promuovendo il tanto celebrato oggi Made in Italy, ma si contesta l’idea che in maniera totalmente acritica e senza alcun tipo di beneficio per lo studente, si cali dall’alto un evento che va a snaturare completamente il ruolo e la missione dell’università pubblica.
Forse questa è la vera domanda da porsi. Quale ruolo riveste l’università di Milano in questo evento e più in generale che funzione ha l’università pubblica oggi?
Camminando per i chiostri tra il 7 e il 17 aprile (peraltro alcuni, come il cortile Farmacia, aperti esclusivamente per il Fuorisalone e per il resto perennemente chiusi e mai a disposizione di chi davvero vive quotidianamente l’università) si ha più l’impressione di camminare in un negozio.
Al di là quindi dell’assenza di una ratio nelle installazioni che ormai sono esposte esclusivamente per promuovere e non per il valore intrinseco che esse hanno, non si può tollerare che spazi universitari di per sé deputati all’accoglienza e allo scambio di idee fra studenti, ricercatori e professori, vengano ridotti a mero luogo espositivo.
Esistono tante modalità differenti per valorizzare un’università promuovendo al tempo stesso il design, come ad esempio organizzare incontri, seminari o ospitare esponenti del settore, modalità forse più consone all’ambiente universitario.
Se poi la replica si sposta sul piano economico è possibile sostenere che attraverso questo evento è possibile acquisire risorse importanti, ma ciò contrasterebbe con l’obiettivo primario di un’università pubblica. Essa ha infatti come obiettivo la formazione e la crescita accademica e professionale di studenti e ricercatori e non mira ad uno scopo lucrativo, altrimenti sarebbe da considerarsi un’impresa. E se volessimo portare alle estreme conseguenze questo ragionamento massimizzando ciò che si ricava col Fuorisalone, allora sarebbe decisamente più lucrativo affittare sistematicamente i chiostri di Festa del Perdono per gli eventi più disparati. Sarebbe a tutti gli effetti la crisi dell’università in senso stretto e la vittoria acclarata del profitto sul diritto costituzionale allo studio. Se infatti vi è crisi di fondi essi vanno richiesti al ministero competente, ma cercare di svendere gli spazi barattando la serenità dell’ambiente universitario per delle risorse ovviamente limitate dimostra la debolezza odierna del welfare state, oltre a dare un’immagine sbagliata della nostra università.
Risulta peraltro ardito sostenere che con questo evento la Statale acquisti visibilità perché è pressoché nulla oltre che indimostrabile la correlazione tra l’evento e le nuove iscrizioni. Chi mai fra i tanti che passano tra i chiostri deciderebbe di iscriversi in Statale solamente dopo aver transitato durante questi fatidici dieci giorni? Resta quindi da capire quale strada intenda percorrere la dirigenza: perseverare con la “turisticizzazione” di UNIMI e asservirla all’evento di turno impoverendola, oppure ridarle lustro trasformandola in un’eccellenza italiana. A lei la scelta!
Articolo di Edoardo Ansarin