Del: 26 Aprile 2025 Di: Edoardo Fazzini Commenti: 0
Il contrasto tra Harvard e Washington: cosa sta succedendo

L’amministrazione Trump ha recentemente avviato una politica dal pugno duro verso le Università statunitensi, operando coercitivamente sulle università pubbliche e in modo esortativo sulle private. Nello specifico, seguendo la rigidità con cui si affrontano i temi relativi alla lotta all’immigrazione e al contrasto all’antisemitismo – comprendendo nella definizione di questo anche varie forme di protesta nonviolenta pro-Palestina –, è iniziata un’opera massiccia di espulsione dalle università di soggetti considerati come pericolosi, di fronte alla quale alcune università hanno acconsentito a seguire la linea Trump, mentre altre si sono opposte, ribadendo la propria indipendenza.

Quello delle Università è un settore fondamentale per la cultura statunitense.

Gli Stati Uniti sono da molti considerati come il Paese più importante per ricerca e sviluppo (R&D), anche in virtù del loro primato in tema di spesa nel settore. Inoltre, da secoli le università americane rappresentano il punto di riferimento per l’istruzione degli studenti più brillanti e dei soggetti che confluiranno nelle élite globali. Parallelamente, le università ricoprono un ruolo importante nell’immaginario collettivo nazionale degli USA e nella costruzione dell’identità dello Stato. Allo stesso tempo, l’accademia statunitense spicca a livello globale e attrae personale di alto livello anche per gli alti stipendi che vengono offerti a dottorandi, ricercatori e professori.
Per questo, l’imposizione di condizioni stringenti alle università da parte di Trump sorprende, specie se si pensa che essa proviene da un alumnus della Wharton School of the University of Pennsylvania, una delle più prestigiose business schools al mondo nonché una delle otto istituzioni che compongono l’Ivy League, una lega accademica composta dalle otto università più illustri degli Stati Uniti nordorientali.

Trump ha ordinato controlli severi e revisione dei regolamenti sull’operato dell’università; a questo scopo, ha recentemente lanciato vari ordini esecutivi con l’obiettivo di ispezionare le entrate delle università, in particolare i finanziamenti esteri di queste, inserirsi negli affari accademici intaccando la libertà di insegnamento e reprimendo il dissenso a favore del controllo ideologico.

Mentre alcune università hanno accettato le condizioni imposte da Trump (perlopiù in vista delle ripercussioni che dovrebbero fronteggiare in caso contrario), altre si sono opposte a esse e a guidare le proteste c’è l’Università di Harvard. Harvard è da molti considerata come una delle migliori – se non la migliore – università al mondo per ricerca, qualità didattica. Con una dichiarazione del Presidente Alan Garber, Harvard ha rifiutato le richieste dell’amministrazione Trump di controllo e revisione delle proprie politiche interne, ritenendole incostituzionali in quanto contrastanti la propria indipendenza, sfidando il governo che, di conseguenza, ha sanzionato l’Università congelando l’invio di oltre 2 miliardi di dollari di fondi pubblici per la ricerca.

Harvard ha dei fondi imponenti che ammontano a circa 50 miliardi di dollari provenienti in gran parte dai propri contributi alla ricerca e da fondi e donazioni privati – per avere un termine di paragone, i proventi dell’Università degli Studi di Milano ammontano a circa 600 milioni di euro. Ne consegue che le sanzioni di Washington vengono percepite solo in modo limitato dall’università, specie se si pensa che sono state accompagnate da un aumento esponenziale di donazioni da parte di privati in risposta al governo. Tuttavia, occorre notare come il taglio dei fondi sia stato accompagnato anche da altre politiche in contrasto all’università.

Nello specifico, l’IRS, corrispettivo statunitense dell’Agenzia delle Entrate, starebbe pianificando di revocare lo status di esenzione fiscale di cui Harvard gode in qualità di università. Addizionalmente, non va dimenticato che Harvard è composta da un sistema imponente con costi altissimi e spese destinate ai tanti progetti e alle borse di studio che si offrono agli studenti, costi enormi se si pensa che una grande parte degli studenti non paga e non pagherà le rette di circa $60.000 che Harvard richiede, specie a seguito della recente introduzione di nuove regole che prevedono rette gratuite nell’Harvard College per tutti gli studenti con redditi familiari inferiori a $200.000 e copertura completa delle spese di vita per quelli con redditi familiari inferiori a $100.000.

È interessante capire gli effetti pratici dell’inasprimento delle relazioni tra Harvard e il governo americano – che, oltretutto, sembrerebbe provenire da una lettera inviata per errore dal secondo all’Università – tramite il caso della scienziata Kseniia Petrova.

Trattasi di una scienziata russa che lavora alla Scuola Medica di Harvard e stava conducendo ricerche dall’altissimo potenziale su nuovi metodi di diagnosi del cancro, ma al suo ultimo arrivo negli Stati Uniti è stata trattenuta, le è stato strappato il visto ed è stata arrestata per motivazioni minori relative al non aver dichiarato gli embrioni di rana che trasportava; la possibilità di espatrio in Russia rappresenta una minaccia per la ricercatrice, viste le sue posizioni di critica a Putin espresse in passato.

Harvard ha guidato le proteste delle università americane e assieme a essa si sono schierate oltre 100 università, che difendono l’autonomia delle accademie private e condannano le ingerenze politiche nel sistema di educazione superiore. Parallelamente, procede l’opera minacciosa di Trump verso studenti e ricercatori stranieri che lavorano nelle università statunitensi, con arresti a chi è accusato di sostenere Hamas ed essere antisemita o perfino di soggetti i cui arresti non sono nemmeno stati motivati, mentre molti studenti internazionali hanno deciso di non lasciare gli Stati Uniti nemmeno nei periodi di vacanza per timore che i propri visti vengano revocati.

In risposta al clima di tensione crescente, numerosi ricercatori statunitensi stanno valutando di lasciare gli Stati Uniti. Stando a recenti sondaggi, una porzione importante dello staff accademico di alcune delle migliori università al mondo starebbe valutando di lasciare gli Stati Uniti per andare a lavorare in Regno Unito, Stati dell’Unione Europea, Giappone, Singapore e altri Paesi le cui università accolgono a braccia aperte figure ben stimate nell’ambito della ricerca, perfino rinunciando a posizioni di prestigio e stipendi a sei cifre pur di mantenere la propria autonomia e avere la garanzia di lavorare in ambienti di lavoro liberi.

Questo è un rischio enorme per gli Stati Uniti che l’amministrazione Trump sembra prendere sottogamba: perdere la primazia nei settori della ricerca e dello sviluppo legati alle università sarebbe un danno enorme agli Stati Uniti e porterebbe a un indebolimento del prestigio culturale di cui gli USA godono.
L’evoluzione di questa situazione può essere vitale per il futuro del Paese e per il suo prestigio; pertanto, resta importante seguire questa vicenda e comprendere come si muoveranno le accademie e Washington, se l’amministrazione Trump mollerà la presa sul tema nei prossimi mesi, le università statunitensi cederanno alle richieste di Trump o persisterà un clima di gelo tra istruzione superiore e governo.

Edoardo Fazzini
Sono uno studente di Scienze Internazionali e Istituzioni Europee presso l’Università degli Studi di Milano, amante delle tematiche geopolitiche internazionali e dell’informazione scientifico-politica.
Penso che concretizzare la mia passione sia qualcosa di bello, perché di fronte a crescenti sfide l’informazione deve progredire, e solo conoscendo la realtà e diffondendo quanto si apprende si può immaginare un futuro migliore.

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