
Altri due femminicidi si aggiungono questo mese ai nove commessi nel 2025: Sara Campanella, 22 anni, studentessa universitaria a Messina, accoltellata dal collega Stefano Argentino; Ilaria Sula, anch’essa 22enne, uccisa dall’ex fidanzato Mark Samson e nascosta in una valigia. Questi episodi evidenziano una tendenza preoccupante già emersa nel 2024, quando 99 donne sono state uccise tra il 1° gennaio e il 18 novembre: numeri alti, che evidenziano la necessità d’un intervento strutturale che si ponga oltre la repressione penale e vada verso un cambiamento culturale.
Un simile cambiamento, però, è spesso ostacolato dallo stesso linguaggio con cui parliamo della morte d’una donna.
Nel racconto mediatico del femminicidio di Sara Campanella, per esempio, si è continuato a descrivere la “sofferenza interiore” dell’omicida, quasi a segnare la morte della ragazza come il tragico epilogo d’una passione deviata. La figura di Sara è stata ridotta a cliché narrativi altrettanto problematici: si è insistito sulla sua bellezza, sulla sua gentilezza, sul fatto che fosse “una ragazza normale […] che non meritava questo destino”; eppure ogni donna, indipendentemente dalla sua identità, ha diritto alla vita. Addirittura si è provato a sminuire la gravità dell’evento chiedendosi perché Campanella non avesse mai denunciato, perché non avesse semplicemente dato un’opportunità a quel giovane “amante della danza”.
In un’epoca in cui l’accesso all’informazione globale è più elevato che mai, il modo in cui parliamo della violenza può essere altrettanto potente, se non più potente, della violenza stessa.
Questo è particolarmente vero quando si tratta di femminicidio, un’occasione in cui spesso il linguaggio utilizzato spesso minimizza, distorce o addirittura fornisce motivazioni per l’uccisione d’una donna.
Le rappresentazioni mediatiche del femminicidio non sono neutrali, ma saturate da presupposti culturali, pregiudizi di genere e gerarchie sociali che trasformano attivamente il modo in cui il pubblico viene a metabolizzare la natura del crimine. Quando la morte è vista come il termine ultimo d’una storia d’amore fallita e non un atto sistemico di dominazione, la percezione collettiva è più incline a considerare l’assassino come un uomo distrutto dalle emozioni, mentre la donna diventa ombra di se stessa – provocatrice, angelo o statistica.
Quando i media depoliticizzano l’uccisione di una donna, rimuovendola dal suo contesto strutturale, trasformano il femminicidio in una tragedia privata piuttosto che in un’emergenza sociale: uno studio che ha analizzato la copertura dei femminicidi sui giornali in lingua tedesca in Austria, Germania e Svizzera tra il 2018 e il 2020 ha rilevato che i media spesso hanno inquadrato i femminicidi come eventi isolati piuttosto che manifestazioni di un problema strutturale. Il termine “femminicidio” in sé è stato usato raramente, sostituito da etichette eufemistiche come “dramma di coppia” o “tragedia familiare”, in particolare nei media austriaci.
Giornali e social media, nel riportare questi crimini, spesso indulgono in dettagli morbosi e scavano nella vita privata delle vittime dando spazio a dichiarazioni di conoscenti che dipingono l’assassino come “una persona tranquilla”, “un ragazzo d’oro”, come se l’omicidio fosse un atto eccezionale, fuori dalla norma. Lo stesso termine “femminicidio” ha incontrato resistenze politiche e culturali in Italia, con l’accusa di essere ideologico, divisivo, eccessivo. Perché anche gli uomini muoiono (poco importa che esista già la parola “omicidio”): com’è che le donne hanno un termine “speciale” tutto per loro?
C’è una ragione per cui gli uomini che uccidono i loro partner sono spesso incorniciati come esseri “introversi” dal “cuore spezzato”: queste parole portano un peso di familiarità, persino di simpatia. Sono tratte da topoi secolari di diritto maschile e sottomissione femminile, in cui la fine o l’assenza d’una relazione romantica giustifica la reazione violenta.
Quando la donna cerca di staccarsi dal ruolo-appendice (figlia, moglie, amante) per rivendicare la propria esistenza come individuo affermato e complesso – quindi anche imperfetto, capace d’errore e azioni negative – la reazione maschile può corrispondere a un atteggiamento d’irritazione egoriferita, come quando ci si arrabbia nel perdere le chiavi di casa o nel rompere un oggetto usato quotidianamente.
Nel discorso politico, questo linguaggio sanificato porta con sé una serie d’effetti a catena: le recenti politiche italiane sulla violenza domestica si sono concentrate su misure punitive e reattive, sottolineando la necessità dell’ergastolo piuttosto che misure trasformative come l’educazione scolastica e nell’ambiente famigliare alla parità di genere. Dopo ogni caso d’alto profilo, i politici rilasciano dichiarazioni piene di retorica gravitas – tra cui il famigerato “Le donne non si toccano neanche con un fiore” – ma il finanziamento per i rifugi anti-violenza continua a essere tagliato, l’educazione sessuale rimane facoltativa e malvista, secondo l’ingenua convinzione che giovani e bambini siano creature pure e intoccate dalle complessità della vita adulta.
La sociolinguista Vera Gheno ha spesso sottolineato come il linguaggio non sia mai un veicolo neutro, ma agisca come strumento potente per consolidare o scardinare stereotipi e incidere sui modelli culturali. Quando leggiamo di “raptus” e “delitto passionale”, di uomini che “non accettavano la fine della relazione”, ciò che accade non è solo un abuso semantico: è un racconto che umanizza l’aggressore, lo rende in qualche modo fragile vittima delle sue emozioni, mentre la donna scompare dietro ruoli prefabbricati – quella che ha provocato, quella che non ha denunciato, quella che aveva lasciato.
Eppure, la principale strategia narrativa a livello globale rimane testarda nel presentare al pubblico una violenza che è anche spettacolo.
Rimane nel lessico della cultura pop, dove la gelosia d’un uomo che impedisce alla fidanzata di andare in discoteca è vista come gesto di protezione, dove l’esistenza d’una ex “pazza” è una battuta comune. Prospera nei titoli che descrivono le donne come “trovate morte” piuttosto che “uccise” (si parla in questo caso di grammatica passiva, secondo cui la frase risulta priva di un agente esplicito), negli articoli che s’ostinano a parlare delle vittime omettendone il cognome.
Per i molti che si ostinano a lamentarsi di “non poter più dire nulla”: non è solo una questione di semantica. Le parole che scegliamo, le storie che raccontiamo, creano strutture collettive di pensiero che spingono poi ad agire nel mondo reale.
Se il femminicidio viene presentato come un’aberrazione, un gesto compiuto da mostri o uomini ordinari presi da un raptus piuttosto che come un sintomo del patriarcato, non sarà mai un crimine prevenibile.
Gheno, insieme ad altre studiose e giornaliste, ha proposto un uso più consapevole del linguaggio, che non vuol dire censura o rigidità, ma responsabilità. Serve un cambio profondo, non solo nei codici deontologici – che pure ormai esistono, come quelli proposti dall’Ordine dei Giornalisti contro una narrazione eccessivamente drammatizzata – ma nella coscienza collettiva. È necessario rileggere il linguaggio, ristrutturare la grammatica delle notizie, rifondare la narrazione pubblica sulla violenza di genere. Perché solo quando le parole cambieranno, anche la realtà potrà farlo.