Del: 25 Aprile 2025 Di: Carmine Catacchio Commenti: 0

Non chiamiamole staffette! – di Carmine Catacchio

Tradizionalmente, seguendo il peso dei ruoli di genere che tanto ci grava sulle schiene, l’uomo va a lavorare, va al bar con gli amici o i colleghi, fa carriera e, a volte, si può anche concedere di andare “al bordello”.

La donna, invece, non ha bisogno di lavorare, non può andare al bar, perché deve accudire i figli a casa, se lavora non può fare carriera, non può andare oltre ai ruoli di accudimento; per non parlare delle relazioni extraconiugali. Per tirare le somme, nella famiglia patriarcale l’uomo si occupa della sfera pubblica della società, mentre la donna di quella intima e privata.

Ma ci sono state alcune situazioni storiche in cui ci fu l’occasione di infrangere questo schema.

Con la Resistenza le donne riescono a prendere parte a quella società che le aveva emarginate. La sfera pubblica, per loro inaccessibile, entra nelle loro mani, partendo dagli scioperi nelle fabbriche in cui lavoravano per l’assenza di uomini.

Le donne, andando in mezzo alle montagne, o in pianura, o collegando varie brigate di vari colori politici in bicicletta, danno vita a una doppia Resistenza: ai regimi nazi-fascisti e al regime patriarcale. Si cerca di abbattere il ruolo di “angelo del focolare” che da sempre aveva tormentato il mondo femminile.

Eppure, finito l’esperimento democratico della Resistenza, i relitti lasciati dalla società patriarcale riemergono.

Nonostante il 2 giugno 1946 le donne vengano chiamate per la prima volta a votare in Italia, all’interno dell’Assemblea Costituente quel clima di superiorità maschile non muore. Teresa Mattei ricorda: «Mentre parlavo i deputati più anziani si misero a gridare: “Le donne? E, durante quei giorni, sì, durante il ciclo mensile, come potrebbero giudicare con serenità?”».

Nelle grandi parate cittadine, le donne vengono escluse, tolta qualche eccezione che genera reazioni non irrilevanti: «Io non ho potuto partecipare alla sfilata, i compagni non mi hanno lasciata andare. Nessuna partigiana garibaldina ha sfilato. […] Poi ho visto i distaccamenti di Mauri con le donne che avevano insieme. Mamma mia per fortuna non c’ero andata anch’io! La gente diceva che erano delle puttane».

Effettivamente, leggendo diversi romanzi neorealisti e facendo mente locale sulla narrazione della Resistenza portata avanti nelle scuole, sembra quasi che questa sia stata fatta attivamente solo da maschi, mentre le donne si occupavano “solamente” di fare le staffette.

Come se attraversare la RSI in bicicletta con sporte cariche di esplosivo fosse “meno valoroso” di fare guerriglia in montagna o pianura.

Questo è ciò che giunge a noi delle donne della Resistenza: la narrazione di un ruolo subalterno. Nonostante tutte le donne morte in battaglia, nonostante tutte le donne torturate, nonostante tutte le donne stuprate, la donna non è mai partigiana, ma staffetta, termine che diverse partigiane hanno cercato di rivedere.

Con un solo termine, che rappresenta comunque un ruolo fondamentale, viene dimenticata e cancellata la pluralità delle mansioni svolte: dalla battaglia, come Elsa Oliva, alla staffetta, come Bianca Bianchi, all’attività giornalistica, come Lina Merlin.

Se si dovesse parlare di “Resistenza tradita“, allora forse bisognerebbe proprio parlare di tradimento delle donne della Resistenza. Che da resistenti, sono state trasformate in semplici aiutanti degli uomini.

La principale fonte di questo articolo è M. Flores e M. Franzinelli, Storia della Resistenza, Bari, Laterza, 2019.

Il 25 aprile dopo il 1945 – di Michele Cacciapuoti

Il 25 aprile come evento commemorato riguarda la Seconda Guerra Mondiale, ma come commemorazione nasce nel Dopoguerra e nella Prima Repubblica.

Anzi, strictu sensu la prima celebrazione venne decisa quando l’Italia era ancora una monarchia e il re era ancora formalmente Vittorio Emanuele III (che comunque già durante la guerra aveva ceduto i poteri “luogotenenziali” al figlio Umberto). Fu proprio Umberto, su indicazione del primo governo De Gasperi (ancora composto da partiti di destra e sinistra), a stabilire la festa nazionale per il 25 aprile 1946.

Poche settimane dopo Vittorio Emanuele III avrebbe abdicato in favore del figlio, che in seguito al referendum del 2 giugno avrebbe perso i propri poteri. Sarebbe stato proprio il 2 giugno ad accompagnare come festa nazionale il 25 aprile, quando entrambe furono stabilite definitivamente da una legge del 1949.

Rispetto al 2 giugno e ad altre ricorrenze (soggette in seguito anche a sospensioni e slittamenti), fu il 25 aprile a rimanere una festa percepita in modo accorato e “divisiva”, soprattutto negli anni Cinquanta della democrazia protetta (fra repressione poliziesca e governi con il voto del MSI neofascista) – tanto che si giunse quasi a preferire, nelle circolari per le scuole, il compleanno di Marconi.

Nel decennale (1955), nonostante il radiomessaggio pacificante del primo ministro Zoli, si verificarono scontri fra MSI e PCI; nuovi attriti si ebbero il 25 aprile del 1960 (specie da parte comunista), nel pieno delle trattative fra la proposta del centrosinistra di Fanfani e quella del centrodestra di Tambroni, ancora con il MSI.

Si sarebbe poi concretizzata la seconda opzione, ma i violenti scontri di quell’estate avrebbero segnato non solo una svolta nell’apertura al centrosinistra, ma anche una nuova cultura giovanile più vicina alla memoria della Resistenza:

perciò, dagli anni Sessanta il 25 aprile divenne più unanime, “tricolore”, e meno “divisivo” – specie dopo l’inizio della strategia della tensione.

Tuttavia, sarebbe stata ora la sinistra extraparlamentare a rifiutare le celebrazioni unanimi e ufficiali, in nome della terza guerra combattuta quel 25 aprile 1945 secondo lo storico Pavone (ossia, oltre a quella di liberazione e a quella civile, una guerra di classe).

Non tanto quella rammentata a più riprese dal futuro presidente Pertini (fra i responsabili dell’insurrezione del 1945 oggi ricordata), quanto piuttosto quella di Lotta Continua che accusava il PCI di tradimento e il governo di «imbalsamare» la lotta.

Nel 1973, intanto, Pertini connetteva il 25 aprile al giovedì nero di Milano, ossia ai fatali scontri avvenuti poco prima ad opera del MSI, anche sotto la guida di La Russa (leader allora della giovanile).

Esattamente un anno dopo, coincidentalmente, sarebbe caduta la dittatura in Portogallo.

Nel 1963 venne rinviata la festa del 2 giugno, in ragione dell’agonia di papa Giovanni XXIII, in coma – oggi sono già state annunciate le prime limitazioni alle celebrazioni del 25 aprile, dopo la morte di papa Francesco.

Come cambia la Resistenza – di Giulia Camuffo

Il 25 aprile 2024, l’associazione dei Giovani Palestinesi di Milano, l’UDAP (Unione Democratica Palestinese) e alcuni sindacati di base hanno scelto di non partecipare al corteo istituzionale tenuto per celebrare la liberazione dell’Italia dal nazi-fascismo e di tenere un presidio anticipato di fronte al Duomo di Milano.

Questo è accaduto dopo che, nella fase di preparazione della manifestazione diretta principalmente dall’ANPI, si era deciso di non dare visibilità alle richieste delle organizzazioni palestinesi:

non ci sarebbe dovuto essere nessun riferimento al cessate il fuoco e nessuna bandiera palestinese in testa al corteo.

«Condizioni inaccettabili, soprattutto in occasione di una ricorrenza come quella del 25 aprile che richiama i valori di Resistenza e Libertà, gli stessi che il popolo palestinese sta mettendo in campo contro il genocidio sistematico operato dall’esercito israeliano, quasi sempre contro civili inermi, tra i quali circa 10.000 bambini», avevano comunicato le organizzazioni palestinesi insieme ai sindacati CUB e USB.

Anche quest’anno, le associazioni rappresentative della comunità palestinese chiedono di avere un posto dinanzi al corteo e si teme la ripetizione dei passati scontri con la Brigata Ebraica durante le manifestazioni.

«Il 25 Aprile è una giornata che appartiene al popolo, a chi ancora oggi si batte contro l’oppressione, l’occupazione e l’imperialismo», dichiarano i Giovani Palestinesi d’Italia.

Non si può guardare alla giornata che commemora la Resistenza italiana in modo astorico.

La parola Resistenza deriva dal verbo latino stare e di per sé, come sostiene Marco Balzano, è una parola priva di dinamismo: indica un’azione attuata per non cedere ad una forza.

Dopo la guerra di liberazione culminata nel 1945, il suo significato ha assunto una connotazione propositiva: resistere, per cambiare la storia. In Italia, la lotta dei partigiani e delle partigiane fu antecedente alla creazione della democrazia in cui viviamo ancora oggi; i movimenti di resistenza, però, non sono tutti uguali e non sempre hanno tutti gli stessi obiettivi.

È evidente che il movimento Hamas nel suo programma politico non presenti alcuna finalità democratica e che venga ostracizzato da una parte della stessa comunità palestinese, tuttavia si dichiara un movimento di resistenza in senso lato, in quanto attua delle condotte di opposizione nei confronti di un regime di occupazione realizzato dallo Stato di Israele.

Nelle pretese avanzate dalle associazioni palestinesi, non c’è la volontà di celebrare un movimento islamista e fondamentalista, piuttosto ciò che si vuole evidenziare è la complessità delle istanze di liberazione.

A distanza di 76 anni da quel 25 aprile abbiamo ancora bisogno di riflettere sul termine resistenza e sulle resistenze.

Carmine Catacchio
Faccio lettere e mi piace commentare il mondo.
Michele Cacciapuoti
Laureato in Lettere, sono passato a Storia. Quando non sto guardando film e serie od osservando eventi politici, scrivo di film, serie ed eventi politici.
Giulia Camuffo
Studentessa di Scienze Internazionali, appassionata di storia, in relazione al presente. La scrittura semplifica ciò che semplice non è.

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