Del: 10 Maggio 2025 Di: Gabriele Benizio Scotti Commenti: 0
Either/Or di Elliott Smith

È sempre un buon momento per tornare su Either/Or. Anche chi non è avvezzo al folk cantautoriale dovrebbe concedergli un ascolto: dopotutto, Elliott Smith non ha nemmeno delle radici propriamente folk. Le sue influenze si ritrovano piuttosto nel pop psichedelico dei Beatles, nel power pop malinconico dei Big Star, ma anche nel punk ruvido degli Hüsker Dü e nel grunge instabile dei Nirvana. Prima di diventare l’icona lo-fi che conosciamo, Smith fu infatti chitarrista e voce degli Stranger Than Fiction e poi degli Heatmiser, band in cui prevaleva il suo lato più abrasivo e tellurico.

Fu solo con Mic City Sons, l’ultimo disco degli Heatmiser (registrato in parallelo tra l’uscita del suo self-titled e Either/Or), che iniziarono a emergere con più decisione le sue inclinazioni pop più morbide. La sua carriera solista partì nel 1994, con Roman Candle, uscito per la Cavity Search: un debutto intimo e spoglio, fatto di chitarra acustica, voce sussurrata e un senso di spleen esistenziale che permea ogni lirica. Era anche il manifesto di una visione autarchica della musica, costruita quasi interamente da solo, nel silenzio delle stanze.

Sebbene forse ancora troppo grezzo, Roman Candle è un lavoro dove emerge una disperazione autentica, nuda, quasi brutale.

Le composizioni, pur nella loro essenzialità, trasmettono una visceralità rara, tale da far passare in secondo piano le imperfezioni tecniche e produttive. Questa traiettoria trova una prima, luminosa sublimazione nell’omonimo Elliott Smith, pubblicato per la Kill Rock Stars, etichetta di culto con base a Portland. Entrambi i dischi meriterebbero un’analisi a parte, ma oggi siamo qui per parlare di Either/Or, e per quanto sia difficile non soffermarsi su ciò che lo ha preceduto, dovremo (almeno per ora) limitarci qui.

Either/Or uscì il 25 febbraio del 1997. In quel momento Elliott Smith era già diventato una figura di culto nel circuito indie americano, ma la sua fama restava confinata a una nicchia, nonostante i primi due album — Roman Candle e Elliott Smith — fossero stati accolti con crescente entusiasmo da una critica che solo anni dopo ne avrebbe compreso appieno la portata.

Il titolo dell’album richiama direttamente l’opera omonima di Søren Kierkegaard, e come il testo del filosofo danese, anche questo disco si muove tra due poli: l’etica e l’estetica. Musicalmente, però, Either/Or rappresenta un cambio di rotta. Dopo due lavori dominati dall’acustica, qui Smith introduce un uso più ampio della strumentazione elettrica, a partire dalla chitarra. Le composizioni si fanno più di ampio respiro e meno folkeggianti, sebbene l’estetica indie folk rimanga predominante in molti brani. Il lo-fi poi non rimarrà più tanto a livello tecnico ma quanto estetico. Inoltre per la prima volta abbiamo due co-produttori: Rob Schnapf e Tom Rothrock, entrambi già visti in azione con Beck.

Un’evoluzione significativa si avverte anche a livello lirico.

Se nei due album precedenti la dipendenza da droghe e alcol era un tema centrale e quasi ossessivo, in Either/Or le tematiche si ampliano, pur senza perdere la cifra esistenziale che caratterizza l’intera produzione di Smith. A dominare resta un senso profondo di solitudine, fallimento e disillusione: ogni brano trasuda un malessere quieto, mai esibito, che riflette la grave depressione attraversata dall’artista in quegli anni — una condizione che, purtroppo, sarebbe solo peggiorata con il tempo.

Il disco si apre con l’andamento ondeggiante di Speed Trials, non solo primo brano in scaletta, ma anche singolo d’anticipazione. Un pezzo criptico, in cui affiora lo stile più slacker di Elliott, tra nonchalance apparente e tensione latente.

Ma Either/Or ha anche momenti di maggiore slancio, come nella travolgente Ballad of Big Nothing, una gemma di indie pop in cui la poetica desolata di Smith si esprime al massimo. La canzone descrive un uomo in frantumi, distrutto dall’abuso di droghe:

All spit and spite, you’re up all night and down every day

A tired man with only hours to go just waiting to be taken away.

Ballad of Big Nothing

Qui, la scrittura tagliente si sposa con una melodia sorprendentemente solare, quasi radio-friendly, generando un contrasto spiazzante ma efficace.

Questo gioco di opposizione raggiunge l’apice con uno dei versi più devastanti dell’intera discografia di Smith: «Watching the parade with pinpoint eyes full of smoldering anger». Una sintesi perfetta della sua poetica: alienazione, dipendenza e una rabbia sorda, compressa dietro uno sguardo apparentemente distaccato.

I brani acustici non mancano, e uno dei più innovativi per Elliott a livello tematico è sicuramente Angeles, invettiva sarcastica contro il tritacarne dell’industria musicale.

I can make you satisfied in everything you do

All your secret wishes could right now be coming true

And be forever with my poison arms around you

Angeles

Dietro questa promessa suadente si cela un’amara condanna del sistema discografico, incarnato simbolicamente da Los Angeles.

Il brano è un «piacere di conoscerti» intriso di veleno, in cui emerge la scissione interna di Elliott: la tensione tra il desiderio di farsi ascoltare e il rifiuto di una macchina che tende a fagocitare l’artista. Una tensione che, purtroppo, lo accompagnerà fino alla firma con la major DreamWorks per il successivo XO.

Le altre due perle acustiche del disco sono forse anche le più emblematiche. Between the Bars, probabilmente il brano più celebre dell’intera discografia di Elliott Smith, si presenta come una ninnananna decadente. In questa canzone, Smith mette in scena una relazione tossica con l’alcol, ma lo fa adottando una prospettiva intima e psicologica, quasi seduttiva:

Drink up, baby, look at the stars

I’ll kiss you again, between the bars

Where I’m seeing you there, with your hands in the air

Waiting to finally be caught

Between the Bars

La voce sottile, sussurrata, accompagna una melodia disarmante nella sua semplicità, creando un’atmosfera di struggente dolcezza che nasconde, sotto la superficie, un’inquietudine profonda. L’alcol diventa qui rifugio e condanna, carezza e catena.

Chiude il disco Say Yes, un brano dolceamaro in cui, per la prima volta, Smith affronta apertamente il tema della rottura amorosa. È una canzone più luminosa solo in apparenza: la melodia quasi ottimista fa da contrasto a un testo che parla di fragilità e speranza in bilico. Questo motivo tornerà spesso nei dischi successivi, XO e Figure 8, dove le relazioni spezzate e l’impossibilità di riconciliarsi con sé stessi diventano temi centrali.

Il lato più rock di Elliott Smith, dove emerge in particolare l’influenza dei Nirvana e in particolare dell’Unplugged, è la intrigante Cupid’s Trick, pezzo che presenta delle liriche a tema più sensuale che sono piuttosto inusuali per il cantautore. La particolarità delle liriche di questo brano è testimoniata anche dal rifiuto di Smith di inserire questo testo nel bootleg compreso col CD.

I richiami al folk rimangono più intatti in alcuni dei momenti più toccanti del disco.

Alameda ne è un esempio perfetto: brano semplice all’apparenza, ma in realtà ricercatissimo nelle sue linee melodiche. La chitarra, dolcissima, dipinge un’atmosfera nostalgica e sognante, mentre il testo tocca i temi dell’isolamento e della disillusione con una delicatezza disarmante.

Rose Parade racconta il senso di distacco di Elliott Smith nei confronti della società e delle sue messinscene. La parata a cui fa riferimento il titolo diventa metafora di un mondo inautentico, fatto di maschere e personalità costruite. È una critica sottile, quasi sussurrata, a quella parte di umanità che si rifugia nell’apparenza per sfuggire al vuoto interiore. La “Rose Parade” è anche un riferimento a Portland, città in cui Elliott ha vissuto per molti anni, trasformata qui in simbolo di un’ipocrisia quotidiana da cui sente il bisogno di allontanarsi.

No Name #5 è un brano più statico: un folk etereo e sospeso, completamente acustico fino agli ultimi trenta secondi, quando l’ingresso del basso e della batteria spezza l’intimità rarefatta della prima parte, lasciando una scia emotiva intensa.

Infine, 2:45 AM è forse il brano più urbano e doloroso del lotto. Qui Smith ripete ostinatamente lo stesso pattern chitarristico, come in un mantra che accompagna un testo intriso di ricordi traumatici e distacco familiare. Il riferimento agli abusi subiti dal compagno della madre emerge chiaro nei versi conclusivi: I’m walking out on center circle / The both of you can just fade to black / Been pushed away and I’ll never go back. Un addio definitivo, senza possibilità di ritorno.

Questo è Either/Or, la summa dello stile smithiano: desolato, alienato, essenziale e profondamente autarchico.

Un disco che segna un punto di svolta nella carriera di Elliott Smith, trasformandola – non rendendola meno autentica, ma sicuramente diversa. Alcuni brani verranno scelti per la colonna sonora di Will Hunting – Genio ribelle, conferendogli un’improvvisa visibilità; Miss Misery, scritta appositamente, verrà addirittura candidata agli Oscar, senza però vincere.

Poco dopo il cantautore firmerà con una major, pubblicando comunque altri due dischi eccezionali. Eppure, lo Smith di questo periodo, sospeso tra l’underground e la consacrazione, è forse quello più capace di coniugare la sua estetica lo-fi e minimale con una raffinata tensione alla sperimentazione. Un equilibrio raro che dà vita a un album ancora oggi toccante, affascinante, e capace di scavare a fondo nell’animo umano.

Gabriele Benizio Scotti
Studente di filosofia, appassionato di musica, cinema, videogiochi e letteratura. Mi piace scrivere di queste tematiche e approfondirle il più possibile.

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