
Oggi proviamo un senso di colpa, un prurito che viene da dentro: abbiamo troppi strumenti e opportunità per informarci ed essere diligenti, nonostante questo non ce ne avvaliamo, siamo responsabili dunque? Siamo buoni cittadini?
Avvertiamo il non avere scuse per la nostra ignoranza. Quello che sentiamo è il dover fare ed essere tutto.
Chi non vede i diritti che i social stanno calpestando, forse guarda altrove. I meccanismi di manipolazione e di controllo dell’informazione ci condizionano profondamente. Siamo perciò colpevoli?
Da quando ci svegliamo a quando andiamo a dormire è una società privata che ci impone nei consigliati cosa vedere, cosa leggere, cosa ascoltare, cosa pensare, cosa dire e non dire, cosa essere. Come sottolineato dal filosofo di origine sudcoreana Byung-Chul-Han in Infocrazia (2021), attraverso la psicometriasi può persino prevedere il comportamento di una persona, predizioni che superano ciò che si crede di sapere di sé stessi, tale predizione indebolisce il processo democratico, falsando il suo presupposto cardine, ovvero l’autonomia e il libero arbitrio.
La cosa peggiore è che questa violazione del diritto fondamentale alla libertà è camuffata da esercizio di diritto stesso, diritto all’informazione, diritto alla libertà di fare quello che vogliamo con i social. Non vediamo il male che facciamo a noi stessi e alla collettività.
La società che è nata oggi è disumanizzante, nulla di tutto quello che ci circonda sembra essere umano. È umano poter essere bombardati da migliaia di informazioni in una sola giornata? È umano stare davanti ad un oratore che analizzando i tuoi gusti, il tuo sguardo, i tuoi tempi di reazione, i tuoi pensieri, riesce a modulare costantemente la voce e i suoi discorsi così da ammaliare e non lasciarti più andare? È umano mutare costantemente forma come nelle dark ads dove ciascuno riceve una notizia diversa, così da frammentare la sfera pubblica e provocare divisioni e polarizzazioni?
Ma il controllo non avviene con la forza. Siamo noi i diretti responsabili dell’oratore che stiamo allenando.
Come evidenziato in un articolo apparso su Wired Italia (2018), che riporta le riflessioni dell’esperto Alessandro Chessa, siamo noi stessi a fornire i dati che alimentano questi sistemi. Le nostre interazioni, i like, i commenti, le scelte, contribuiscono alla formazione di modelli predittivi che, nel tempo, imparano a mostrarci ciò che presumibilmente ci interesserà.
In questo senso, le nostre scelte passate influenzano ciò che ci verrà mostrato in futuro: non siamo solamente spettatori passivi, ma partecipanti attivi, coautori della nostra bolla. L’algoritmo non è una voce autoritaria, ma un interlocutore seducente. Dialoga con noi, ci accompagna, danza sulle nostre scelte.
Tuttavia, questo contribuisce a rendere il quadro ancora più preoccupante.
L’algoritmo non ci impone nulla in modo autoritario, ci asseconda e proprio questo assecondarci ci conquista. La nostra libertà non è negata, ma plasmata da ciò che abbiamo già scelto nel corso della nostra esperienza digitale.
La cosa che fa ancora più male è che questa esposizione alle informazioni non porta nemmeno a migliorare le nostre conoscenze perché l’algoritmo non è altro che camera d’eco.
Come denunciato da Eli Pariser nel suo libro The Filter Bubble (2011), gli algoritmi selezionano i contenuti in base alle preferenze dell’utente, generando la cosiddetta «bolla di filtraggio». Questo meccanismo riduce l’esposizione a prospettive diverse e rafforza convinzioni preesistenti, provocando gravi conseguenze quali la polarizzazione e la radicalizzazione, l’erosione del confronto democratico, la diffusione di fake news e la manipolazione dell’opinione pubblica.
Come riportato in uno studio dell’Oxford Internet Institute, i social media sono stati utilizzati da personaggi politici e altri gruppi per manipolare l’opinione pubblica attraverso campagne di disinformazione e propaganda mirate.
Tale uso distorto dei social favorisce la frammentazione dell’informazione, impedendo di fatto il dialogo e il dibattito pubblico, fondamento della democrazia. In questo modo non ci esponiamo nemmeno a scontri con visioni diverse e non gradite, rimangono davanti ai nostri occhi solo quelle in linea con i nostri pensieri.
Ma esattamente quali pensieri se formati da una linea retta che non si scontra con nulla? Cosa c’è di democratico in tutto questo?
Tale sistema va contro il principio stesso di democrazia. Questa è la realtà del nostro secolo, siamo sempre più connessi, più vicini ad ogni strumento ma ovviamente meno capaci ad utilizzare questi ultimi in modo consapevole, non riusciamo a vedere il loro potenziale in mezzo a tanto brusio.
In questi decenni ci siamo presi una colpa che non è mai stata naturale dell’essere umano: siamo colpevoli di non sapere, non sapere qualsiasi cosa, di non saper fare qualunque cosa, di non sapere essere cittadini consapevoli, cittadini con sguardo critico, buoni cittadini.
È colpa nostra l’ignoranza che ci resta? È colpa nostra se non sappiamo far funzionare la democrazia? Sistema basato sul sapere, sull’essere informati. Possiamo conoscere tutte le notizie in tempo reale in ogni parte del globo eppure è facile che veniamo manovrati su come si stanno svolgendo le guerre attorno al nostro Paese. Potremmo fare tutto, così abbiamo la sensazione di non fare nulla. Non è reale questa sensazione, eppure studiamo, ci informiamo e cerchiamo di essere attori consapevoli costantemente.
Oramai però con la presenza degli strumenti tecnologici nulla ha più valore: le notizie si deflazionano ai nostri occhi, si accavallano tra i pensieri.
Byung-Chul Han sottolinea come l’eccesso di informazione non aumenti la consapevolezza, ma confonda e manipoli. Il controllo non avviene più con la censura di essa ma con la sua offerta apparentemente libera, guidata dalle logiche di engagement.
Nell’attuale democrazia, la veridicità delle informazioni ha perso rilevanza. Come afferma Zuboff in The Age of Surveillance Capitalism (2019), il capitalismo delle piattaforme trasforma l’attenzione in un bene economico.
Da questo si comprende come la veridicità delle informazioni è subordinata al valore economico dell’attenzione. Gli algoritmi, anziché informare, mirano a trattenere gli utenti, anche a costo di favorire contenuti estremi, semplicistici, divisivi o peggio, non reali. Di conseguenza, il compito dell’informazione non è più quello di diffondere la verità, ma di diventare virale. L’informazione viene consumata in modo impulsivo, provocando emozioni forti negli utenti, nei cittadini, alimentando così l’indignazione e la polarizzazione. In tale sistema non si è più utenti, né cittadini, si è semplicemente consumatori.
In questo mondo non c’è più il tempo di aspettare, non c’è la pazienza per sondare i frutti del processo democratico, un processo che per sua natura deve essere lento, macchinoso, complicato.
Come afferma Han, la diffusione virale dell’informazione danneggia il processo democratico: la velocità della rete non combacia con la coerenza logica, argomentazioni e giustificazioni non possono passare per tweet o meme, ma il danno è fatto:
Le informazioni hanno una logica propria, una propria temporaneità, una propria dignità al di là di verità e menzogna. Anche le fake news sono prima di tutto informazioni. Esse hanno esercitato il loro pieno effetto prima che abbia inizio un processo di verifica.
Byung-Chul Han, Infocrazia, 2023, Torino: Einaudi.
Stando così le cose il regime infocratico sta alterando il modo in cui formiamo opinioni, anche e soprattutto politiche.
La democrazia che conoscevamo si basava sul confronto di idee libere e differenti, sulla formazione di un’opinione autonoma e consapevole. La democrazia che si sta palesando ora ai nostri occhi è un sistema in cui il controllo dell’informazione determina la struttura stessa del potere.
Le basi della democrazia sono la consapevolezza e il pensiero critico.
Quest’ultimo deve essere allenato ora più che mai, pertanto dobbiamo ripensare il nostro rapporto con l’informazione. Oggi il controllo è più insidioso perché non è percepito come tale, non ha la forma di un divieto, viene mascherato da offerta apparentemente libera di informazioni. I mezzi tecnologici sono il futuro, non sono negativi di per sé ma se ne deve fare un uso corretto. Non serve solo educazione digitale, trasparenza sugli algoritmi o legiferazione in materia, serve soprattutto consapevolezza sul modo in cui i social influenzano la nostra visione del mondo.
Il potere non consiste nel manipolare ciò che è vero o ciò che è falso, ma nello stabilire a quali informazioni si possa accedere e a quali no. Sotto il regime dell’Infocrazia le parole che George Orwell scriveva in 1984 appaiono dotate di una lucidità disarmante:
Al futuro o al passato, a un tempo in cui il pensiero sia libero, gli uomini siano gli uni diversi dagli altri e non vivano in solitudine… a un tempo in cui la verità esista e non sia possibile disfare ciò che è stato fatto: dall’età dell’uniformità, dall’età della solitudine, dall’età del Grande Fratello, dall’età del bipensiero… Salve!
George Orwell, 1984, 2019, Milano: Mondadori.
Articolo di Joel Cangemi