
Il 27 gennaio 2025 l’M23, gruppo armato sostenuto dal Ruanda, ha preso il controllo di Goma, città situata nella regione di Kivu Nord, nella parte orientale della Repubblica Democratica del Congo. Questo attacco fa parte di un’offensiva militare più ampia che ha condotto a più di 400mila sfollati solo a gennaio.
L’M23, acronimo di “Movimento 23 Marzo”, è una milizia che sostiene di combattere per proteggere l’etnia Tutsi nella RDC e ha sede nel Kivu, una regione ricca di minerali e pietre preziose. Il movimento prende il nome dai fallimentari accordi siglati il 23 Marzo 2009 tra l’allora Presidente della RDC Joseph Kabila e il Congresso Nazionale per la Difesa del Popolo (CNDP), movimento armato che voleva prendere possesso della regione di Kivu, con a guida Laurent Nkunda, un congolese di etnia Tutsi. Questi accordi avrebbero dovuto portare alla completa integrazione del CNDP all’interno delle forze armate nazionali congolesi e al riconoscimento del movimento come partito politico a tutti gli effetti.
Queste promesse vennero, però, disattese e nel 2012 il processo di integrazione degli ex soldati della CNDP all’interno delle forze armate nazionali fallì: alcuni soldati si ribellarono al governo centrale e nacque così la milizia M23.
Per comprendere le origini storiche del gruppo armato bisogna guardare al genocidio ruandese avvenuto nel 1994, quando più di 800mila persone principalmente di etnia Tutsi trovarono la morte per mano di estremisti miliziani di etnia Hutu noti come Interahamwe. Le violenze si protrassero per oltre 100 giorni, segnando uno dei genocidi più gravi dalla Seconda guerra mondiale.
I Tutsi e gli Hutu sono due etnie autoctone del Ruanda, dedite rispettivamente all’allevamento e all’agricoltura. Il Belgio, la cui dominazione coloniale nel Ruanda durò dal 1922 al 1962, si fece promotore dell’idea della superiorità entico-razziale dei Tutsi per poter assoggettare meglio la popolazione: la divisione etnica tra Tutsi e Hutu poggia le sue fondamenta proprio nel colonialismo ed è ancora oggi alla base di numerosi disordini.
In Ruanda, l’indipendenza dal Belgio fu preceduta dalla cosiddetta “Rivoluzione Hutu”. Il principale movimento indipendentista era il Parmehutu, movimento di emancipazione dell’etnia Hutu che condusse all’abolizione della monarchia retta nel periodo coloniale e che ottenne la leadership del governo nel 1962. Il Parmehutu fu anche autore di numerose violenze contro la minoranza Tutsi (considerata la classe più elevata durante il colonialismo).
Dalla fine degli anni ’80 in Ruanda iniziò la lotta del FPR, il Fronte Patriottico Ruandese, composto dagli esuli Tutsi e guidato da Paul Kagame. Nel 1993 venne siglato un pacchetto di accordi firmati ad Arusha, in Tanzania, tra il governo Hutu e l’FPR, finalizzati a porre fine alla guerra civile nel paese e alla creazione di un governo di transizione. Nel 1994 l’abbattimento dell’aereo in cui si trovava Habyarimana, il Presidente del Ruanda di etnia Hutu, diede inizio al genocidio dei Tutsi e degli Hutu moderati. Dal 1994 l’FPR consolidò il suo potere e Paul Kagame venne eletto Presidente della Repubblica Ruandese nel 2000; ad oggi è ancora in carica.
Il genocidio segnò anche la svolta securitaria del paese. Il Ruanda iniziò a invadere con le proprie truppe le regioni orientali della RDC nel 1996, in cui erano stanziati circa due milioni di rifugiati ruandesi dalla fine del genocidio. L’est della RDC da quel momento ad oggi non ha mai visto veramente cessare le violenze e l’M23 è solo una delle tante milizie presenti nella regione. Il Ruanda, nonostante continui a negarlo, viene considerato il principale finanziatore dei ribelli: secondo un gruppo di esperti dell’ONU avrebbe addirittura il pieno controllo delle operazioni e dell’addestramento militare delle reclute.
Nell’est della RDC si rifugiarono anche le milizie di etnia Hutu coinvolte nel genocidio del ’94 e alcune di esse hanno formato le Forze Democratiche per la Liberazione del Ruanda (FDLR). Kagame, che era a capo delle forze ribelle tutsi che posero fine al massacro, vede questa «milizia genocida» come una minaccia esistenziale. Il Ministro degli Esteri Ruandese ha dichiarato:
«Questi combattimenti vicino al confine ruandese continuano a rappresentare una seria minaccia per la sicurezza e l’integrità territoriale del Ruanda e richiedono una posizione difensiva sostenuta del Ruanda».
Il 3 febbraio il gruppo armato M23 aveva annunciato un cessate il fuoco nell’est della RDC «per motivi umanitari», pochi giorni prima di un incontro tra il presidente Congolese Félix Tshisekedi e Paul Kagame, ma ad oggi possiamo dire che non è stato minimamente rispettato. Il 16 Febbraio 2025, i ribelli hanno preso il controllo di Bukavu, nel Sud di Kivu, al confine con il Ruanda, anch’essa zona ricca di minerali. Il governo di Tshisekedi accusa il Ruanda di volersi appropriare delle risorse minerarie presenti nella regione di Kivu, il Ruanda invece sostiene di voler sradicare i movimenti armati che considera una minaccia alla propria sicurezza. In questo contesto si colloca la decisione di Kagame di rompere le relazioni diplomatiche con il Belgio, accusato di aver sostenuto il governo della RDC durante il conflitto in corso per «aspirazioni neo-coloniali».
Le aspirazioni politiche di Paul Kagame sono da ricondurre al Ruanda pre-coloniale in cui il mwami, ossia il re, governava un paese di pastori e agricoltori, le cui differenze etniche non erano motivo di violenze così come lo sono oggi. I confini dell’odierno Ruanda sono stati tracciati dall’ex amministrazione coloniale belga, ma per Kagame l’influenza dell’antica Nazione si estendeva ben oltre le colline del Nord Kivu e ciò a cui punta è proprio questo: la rinascita di un Grande Ruanda. L’eredità storica del conflitto congolese ha a che fare con le divisioni etniche instillate dal colonialismo occidentale che hanno profondamente compromesso le politiche del territorio e aumentato il radicalismo di politici e gruppi armati. Questa escalation di violenza ha comportato l’uccisione di più di 7mila persone e il 16 Aprile 2025 i ribelli dell’M23 hanno condotto un’ulteriore operazione militare nella città di Mutao, nel Nord Kivu, distruggendo le case di civili sospettati di aver dato rifugio a combattenti Wazalendo, alleati delle Forze armate della Repubblica Democratica del Congo.
La situazione umanitaria nel paese è complessa e l’avanzata dei ribelli ha aggravato la già preoccupante crisi. Gli abitanti delle città occupate sono costretti a spostarsi, così come anche chi viveva nei campi profughi limitrofi a Goma. Molte persone scappano negli stati vicini, molte altre non possono, e quindi si ritrovano per strada.
A tutto ciò si somma il collasso del sistema sanitario, dovuto all’ospedalizzazione di migliaia di feriti, molti con lesioni gravi e bisognosi di trasfusioni di sangue. Le vie di trasporto sono state bloccate, causando l’interruzione dell’arrivo di aiuti, cibo, forniture mediche e impedendo la possibilità di spostare i feriti in altri ospedali meno sovraffollati.
Il sovraccarico ospedaliero metterà ancora più in difficoltà la popolazione congolese già piegata da anni dalla diffusione endemica della mpox – nota come vaiolo delle scimmie – dichiarata «emergenza di salute pubblica internazionale» dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS).
Secondo l’Istituto Superiore di Sanità, dall’inizio del 2024 ad agosto 2024 nella RDC ci sono stati più di 16.000 casi e 500 decessi, la maggior parte dei quali (66% dei casi totali e 82% dei decessi) erano bambini sotto i 15 anni di età. A causa del numero limitato di diagnosi, è molto probabile che il dato sia sottostimato.
Inoltre, l’ingresso dei ribelli a Goma ha portato all’evasione di migliaia di uomini da una prigione della città, dotata anche di una sezione femminile. Vivian van de Perre, la rappresentante speciale aggiunta per la protezione e le operazioni nella missione di stabilizzazione delle Nazioni Unite nella Repubblica Democratica del Congo, racconta che le poche centinaia di donne lì detenute sono state sistematicamente stuprate. L’ala è poi stata incendiata, uccidendo tutte coloro che si trovavano al suo interno.
Questo è solo uno dei tanti casi in cui, durante il conflitto in Congo, lo stupro è stato usato come arma di guerra.
Da anni molte organizzazioni internazionali raccontano di come le violenze sessuali siano parte integrante degli scontri nella RDC. Tali atrocità vengono sistematicamente commesse con crudeltà e brutalità inimmaginabili, al fine di mantenere il controllo sui civili tramite il terrore e l’umiliazione. Gli stupri sono, infatti, fonte di grande discredito sociale, motivo per cui è quasi automatico che le mogli vengano lasciate dai mariti e ostracizzate dalle loro comunità. Capita inoltre che, per questa ragione, le donne non si rivolgano ai medici dopo le violenze subite, con grave danno per le loro condizioni sia fisiche sia psicologiche. In ogni caso anche la situazione dei centri sanitari è pessima: mancano molti medicinali, tra cui quelli per prevenire infezioni post-aggressione.
Ancora meno frequentemente le donne si rivolgono alle autorità per denunciare: né la polizia né le corti perseguono concretamente questi tipi di reato.
Le violenze hanno, infine, una chiara dimensione etnica. Le vittime, donne e ragazze, sono scelte tra quelle delle etnie «nemiche», con l’intento di seminare il terrore, rompere i legami sociali e modificare la composizione etnica dei territori.