Del: 9 Maggio 2025 Di: Redazione Commenti: 0
In corso il processo a Roberto Zorzi per la strage di Piazza della Loggia

Al Tribunale di Brescia si sta svolgendo il processo a carico di Roberto Zorzi, terrorista neofascista legato ai gruppi Anno Zero e Ordine Nuovo e accusato di essere tra gli esecutori della strage di Piazza della Loggia, avvenuta a Brescia il 28 maggio 1974. Quel giorno una bomba, situata dentro un cestino dei rifiuti sotto il porticato della piazza, esplose durante una manifestazione sindacale contro il terrorismo neofascista. Otto persone morirono, altre 102 rimasero ferite. 

Roberto Zorzi, veronese, è nato nel 1953 e vive nel Nordovest degli Stati Uniti, nello stato di Washington, dove gestisce un allevamento di cani dobermann chiamato “Del Littorio”. La procura di Brescia lo aveva già inserito tra gli indagati nel dicembre 2021e, nelle ultime settimane, l’accusa si è potuta avvalere della testimonianza di Ombretta Giacomazzi, fidanzata, all’epoca dei fatti, del neofascista bresciano Silvio Ferrari.

Ferrari era morto il 19 maggio, quando una bomba che portava con sé e che intendeva piazzare davanti alla sede bresciana della CISL esplose improvvisamente, episodio che spinse i sindacati a indire la manifestazione antifascista del 28 maggio.

Pochi giorni dopo, nella pizzeria gestita dal padre, la testimone udì Zorzi e altri neofascisti parlare di una «vendetta» per la morte di Ferrari. All’epoca la donna aveva pensato che gli uomini si riferissero a un attacco pianificato (ma poi non realizzato) al Blue Note, un locale di Brescia, ma solo dopo il 28 maggio collegò quei discorsi con la strage di Piazza della Loggia.

La testimone ha parlato agli inquirenti anche dei suoi rapporti con l’allora capitano del Nucleo Investigativo dei Carabinieri di Brescia, Francesco Delfino, divenuto poi generale dell’Arma e scomparso nel 2014.

Delfino è una figura piuttosto controversa: nel 2008 fu rinviato a giudizio per concorso in strage e la Cassazione lo assolse in via definitiva nel 2014, ma negli anni è stato a più riprese accusato di depistaggio delle indagini da giornalisti, familiari delle vittime e alcuni testimoni.

Tra questi c’è ora anche Ombretta Giacomazzi, che in aula ha detto che l’ex fidanzato Silvio Ferrari lo riceveva assieme ai suoi uomini nel proprio appartamento a Brescia per scambiare foto, documenti e denaro, e aveva incontri nelle caserme dei Carabinieri di Verona assieme a Delfino stesso e altri neofascisti. Queste le parole della teste su ciò che le disse l’allora capitano dopo la strage:

Delfino mi disse: “Se tu non vuoi che io trasformi il reato di reticenza in concorso in strage devi cercare di coinvolgere il figlio del giudice Arcai che si chiama Andrea Arcai”. Lo conoscevo di vista Andrea Arcai, ma lui non è mai stato coinvolto in nulla.

Inoltre la donna, ascoltata nuovamente dagli inquirenti martedì 15 aprile, ha affermato che uno dei suoi diari, dove appuntava ciò che faceva assieme a Ferrari e i nomi di coloro che incontravano il fidanzato, le era stato sequestrato il giorno della strage per non esserle più restituito. Questo dettaglio avallerebbe ulteriormente la tesi del depistaggio delle indagini a opera delle autorità.

Venerdì 11 aprile, durante la trasmissione televisiva Messi a fuoco dell’emittente bresciana Teletutto, ha parlato l’avvocato Sergio Arcai, figlio del magistrato Giovanni Arcai e fratello di Andrea, il ragazzo quindicenne che seppur innocente venne indagato nella prima inchiesta sulla strage.

Arcai ha detto di provare disgusto per i fatti narrati da Ombretta Giacomazzi, comunque già noti a chi ha seguito i processi e aggiungendo: «Sappiamo da tempo cosa c’era dietro alle false accuse a mio fratello e alle persone che sono state sbattute in carcere per mesi perché non dicevano ciò che altri volevano dicessero». Inoltre, l’avvocato ha sottolineato che spesso si ricordano le vittime della strage ma non gli innocenti coinvolti nelle prime inchieste, tacendo così le profonde conseguenze psicologiche che i processi hanno avuto sulle loro famiglie, tra cui la sua.

Il processo Zorzi è una nuova tappa della tortuosa strada che, il 3 aprile, ha già portato alla condanna a trent’anni di reclusione a Marco Toffaloni, colui che, secondo quanto si afferma nella sentenza di primo grado, piazzò la bomba nel cestino il 28 maggio 1974: si tratta del primo verdetto a individuare un responsabile materiale per l’attentato, dopo quasi cinquantun anni.

Toffaloni, veronese affiliato a Ordine Nuovo, è nato nel 1957 e il giorno della strage aveva sedici anni, motivo per cui il processo a suo carico è stato affidato al Tribunale minorile di Brescia, che ha applicato la massima pena possibile.

Il sessantasettenne non si è mai presentato in aula: è cittadino svizzero sin dagli anni Ottanta e vive a Landquart, nel Canton Grigioni, con il nome di Franco Maria Muller. Le autorità elvetiche non ritengono di doverlo estradare, essendo il reato caduto in prescrizione: è passato ossia troppo tempo dall’attentato. Toffaloni potrebbe essere condotto in Italia solo dopo una condanna definitiva e la revoca della cittadinanza elvetica a causa di atti di terrorismo.

«La condanna di Toffaloni – ha detto a Messi a fuoco Manlio Milani, fondatore dell’Associazione Familiari Caduti strage di Piazza Loggia – è la conferma che tutti, poche ore dopo la strage, sapevano. Provo profonda amarezza perché ci sono voluti cinquant’anni e un lavoro enorme della magistratura per dei risultati che si potevano avere subito e perché, se quelle verità non fossero state coperte, non ci sarebbe stata la strage dell’Italicus [attentato di matrice neofascista avvenuto il 4 agosto 1974 in provincia di Bologna, quando l’esplosione di una bomba su un treno diretto a Monaco di Baviera uccise dodici persone, ndr]».

Anche l’iter giudiziario per individuare gli ideatori della strage è stato piuttosto complesso.

Nel 2008 sei uomini vennero rinviati a giudizio e furono assolti nel 2012; poi, nel 2014, vi fu la sentenza della Cassazione che confermò l’assoluzione del generale Delfino e di altri tre imputati e che annullò, invece, quelle di Carlo Maria Maggi e Maurizio Tramonte, condannati all’ergastolo dal Tribunale di Milano l’anno successivo, sentenza confermata in Cassazione il 20 giugno 2017.

Maggi, deceduto nel 2018, era medico e capo di Ordine Nuovo in Veneto ed è considerato il mandante dell’attacco.

Tramonte fu ordinovista e informatore del Sisde, il servizio segreto civile italiano, con il nome di “Fonte Tritone”: proclamatosi sempre innocente, le indagini dimostrarono il suo ruolo nell’organizzare l’attentato e ciò è appurato anche dalla testimonianza del 15 aprile di Ombretta Giacomazzi, che ha riconosciuto il terrorista padovano come frequentatore delle riunioni nell’appartamento di Silvio Ferrari. La Corte di appello di Brescia, nel 2022, gli ha negato la richiesta di revisione del processo e, ad oggi, Tramonte resta l’unica persona in carcere per l’attentato del 28 maggio 1974.

L’impunità dei responsabili della strage di piazza della Loggia è durata molto, ma ora, con il lavoro della magistratura e le parole di testimoni costretti a tacere per decenni, sembra che la polvere che ha lungamente soffocato la verità inizi a essere spazzata via.

Articolo pubblicato il 9 maggio, in occasione del Giorno della memoria delle vittime del terrorismo. A Brescia, un percorso di oltre 430 formelle, ciascuna intitolata a una vittima del terrorismo e della violenza politica, inizia da Piazza della Loggia fino a raggiungere il castello della città.

Per approfondire: https://www.sempreperlaverita.it/memoriale-2/

Articolo di Pietro Taglietti

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