
In vista dei referendum sul lavoro dell’8 e 9 giugno, abbiamo intervistato due esponenti degli schieramenti contrapposti: Valentina Cappelletti (Segretaria Generale di CGIL Lombardia) e Roberto Cociancich (Coordinatore regionale di Italia Viva in Lombardia).
Il primo quesito consentirebbe di reintegrare nel posto di lavoro alcuni lavoratori, se ingiustamente licenziati, anziché corrispondere loro (come impone la normativa vigente) una somma di denaro. Questo ritorno al passato, quindi ad una normativa vecchia di 10 anni, comporterebbe un beneficio per il lavoratore licenziato?
Cappelletti: Nel caso in cui la persona licenziata sia stata assunta successivamente al 7 marzo 2015, il licenziamento, dichiarato ingiustificato dal giudice, sarebbe sanzionato secondo la norma attualmente vigente per tutti coloro che sono stati assunti prima di quella data, cioè la disciplina Fornero risalente al 2012. Non credo quindi che si possa parlare di “ritorno al passato”, dal momento che l’abrogazione proposta dal quesito referendario, che riguarda la norma del Jobs Act del 2015, avrebbe come effetto di eliminare la disparità fra gruppi di lavoratori solo sulla base del requisito della data di instaurazione del rapporto. L’abrogazione della norma oggetto di quesito, quindi, fornirebbe a tutti il medesimo standard di tutela nel caso incorrano in un licenziamento ingiustificato. Tutti i lavoratori, infatti, risulterebbero soggetti ad un’unica disciplina, quella del 2012, fatta salva la differenza per il tipo di licenziamento (individuale o collettivo) e per le dimensioni dell’impresa, rendendo irrilevante la data di assunzione. Inoltre, l’espansione dell’area della tutela reintegratoria compenserebbe la diminuzione dell’indennizzo massimo che la norma del 2015 riserva al licenziamento ingiustificato in ipotesi del tutto residuali.
Cociancich: Innanzitutto va chiarito che in caso di vittoria del sì non si tornerebbe alla disciplina prevista dall’art. 18 bensì a quella pre-vigente il Jobs Act, che è la norma cosiddetta Monti-Fornero (legge 92/2012). La maggior parte degli specialisti in diritto del lavoro ritiene che questo non comporterebbe reali benefici per i lavoratori. La Riforma Fornero e il Jobs Act condividono sostanzialmente le stesse fattispecie giustificative per il licenziamento (giusta causa, giustificato motivo soggettivo e oggettivo), quindi non cambierebbe la possibilità di licenziare. […] La Fornero già limitava il reintegro obbligatorio ai casi di licenziamento discriminatorio, nullo o ritorsivo, sostituendo in molti casi la reintegrazione con un indennizzo economico, quindi non si tratterebbe di un ritorno a una tutela piena e generalizzata come quella prevista dall’articolo 18 originario.
In sintesi, il ritorno alla disciplina della Fornero, che è la normativa precedente al Jobs Act, non rappresenterebbe un miglioramento sostanziale per i lavoratori in termini di tutela contro i licenziamenti illegittimi, poiché: le fattispecie di licenziamento e le condizioni per il reintegro o indennizzo restano simili; la tutela reintegratoria è limitata e non generalizzata; il sistema continua a privilegiare forme di tutela economica rispetto alla reintegrazione obbligatoria.
Quindi l’abrogazione del Jobs Act senza un intervento più ampio rischierebbe di riportare il mercato del lavoro a una situazione di tutela non pienamente efficace per i lavoratori.
La valutazione dovrebbe poi essere compiuta anche con riferimento non solo agli effetti sul singolo lavoratore ma alle condizioni del mercato. Introducendo una maggiore flessibilità a favore delle imprese soprattutto nei primi tempi del rapporto di lavoro e aumentando invece le tutele via via che il rapporto si prolunga nel tempo (tutele crescenti) le imprese sono incoraggiate ad assumere un maggior numero di dipendenti proprio perché non spaventate dal costo che dovrebbero sostenere qualora dovessero fronteggiare una crisi economica. Nei fatti l’ISTAT ha rilevato che con il Jobs act vi è stato un netto incremento delle assunzioni (1.200.000 posti di lavoro nella maggior parte a tempo indeterminato). Questo in ultima analisi ha comportato un ampio beneficio anche per i singoli lavoratori.
Il secondo quesito verte sui lavoratori impiegati nelle piccole imprese, i quali in caso di licenziamento illegittimo oggi ottengono un risarcimento limitato a 6 mensilità. La richiesta del referendum è di far saltare questo limite all’indennizzo e far decidere al giudice la gravità del licenziamento e di disporre un risarcimento equo. Come giudicate l’ampliamento di discrezionalità in capo al giudice?
Cappelletti: Pensiamo che l’ampliamento della discrezionalità in capo al giudice nel quantificare l’indennizzo anche per valori superiori al tetto massimo di 6 mensilità consentirebbe di aumentare l’equità della norma, sia con riferimento alle condizioni soggettive dei lavoratori (per esempio valutando i carichi di famiglia o l’anzianità), sia con riferimento alla condizione economica dell’impresa. La diffusione delle molte forme di decentramento produttivo evidenzia oggi una realtà in cui non è sempre vero che le imprese che non superano la soglia dei 15 dipendenti siano fragili sotto il profilo economico o patrimoniale e dunque tali da non consentire un indennizzo più congruo a una persona ingiustamente licenziata.
Cociancich: Innanzitutto sarebbe corretto ricordare che per le imprese con più di 15 dipendenti l’indennità per i lavoratori licenziati arriva ad un massimo di 36 mensilità (la legge Fornero si limita a 24) e dunque il Jobs Act in questo è più favorevole e la vittoria del sì al referendum comporterebbe una minore tutela per un numero amplissimo di lavoratori.
L’aumento di discrezionalità in capo al giudice è un fatto negativo in quanto crea incertezza del diritto e le imprese hanno bisogno di poter fare delle scelte proprio facendo affidamento su una ragionevole certezza dei costi che conseguono alle loro scelte. L’incertezza spinge le aziende a non investire e a trasferire risorse in aree e mercati dove c’è maggiore visibilità sui costi e i rischi.
Oggi i datori di lavoro possono stipulare contratti senza causale per i primi 12 mesi. Il terzo quesito renderebbe invece obbligatoria fin da subito la causale giustificativa del contratto a termine. Risulta quindi un modo appropriato per dissuadere i datori dall’applicare contratti a termine e disincentivare la precarizzazione o è soltanto un tentativo velleitario di fermare l’inesorabile flessibilizzazione del mercato del lavoro?
Cappelletti: La flessibilizzazione del mercato del lavoro ha assunto moltissime forme che attraversano sia il lavoro subordinato che quello autonomo. Siamo quindi da molti anni fautori di una riforma integrale delle norme che presidiano i rapporti di lavoro, per ricondurre il ricorso a forme flessibili alla loro forma originaria, cioè gestire esigenze strettamente temporanee.
La causalità dei contratti a termine è la loro caratteristica specifica e il fondamento della loro legittimità, per differenza rispetto alla forma normale del rapporto di lavoro che, nel nostro ordinamento e anche per la disciplina europea, deve essere a tempo indeterminato. Il quesito, nonostante la sua portata necessariamente limitata per la natura del referendum abrogativo, produrrebbe l’effetto di riallineare la normativa a un principio semplice: se l’assenza di termine al contratto è la forma normale del rapporto, ogni anomalia deve essere giustificata in modo dettagliato e riscontrabile, indipendentemente dalla durata apposta al contratto stesso.
Che non si tratti di velleitarismo ma di una possibilità praticamente e politicamente attuabile è dimostrato dalle riforme messe in atto dal governo spagnolo, sulla base del confronto fra associazioni d’impresa e organizzazioni sindacali.
Cociancich: Ritengo che una maggiore trasparenza nel rapporto di lavoro e dunque l’indicazione fin da subito della causale giustificativa sia un fatto positivo. Sono però scettico sul fatto che questo comporti di per sé una riduzione della precarizzazione le cui cause sono altre.
L’ultimo quesito propone di rendere di fatto il committente sempre co-responsabile degli infortuni sul lavoro, nonostante questi derivino da situazioni che rientrano nella sola sfera dell’appaltatore.
Difficile non essere d’accordo nel tutelare il più possibile la sicurezza dei lavoratori, ma è questa la modalità corretta? E ritenete inoltre che le misure approvate il 30 aprile in Consiglio dei Ministri con uno stanziamento di 1,2 miliardi di euro per la sicurezza sul lavoro facciano venir meno le istanze alla base di questo quesito?
Cappelletti: Le risorse stanziate dal Consiglio dei Ministri non fanno venire meno le ragioni del quesito, né potrebbero visto che non intervengono sulla materia oggetto del referendum. Il quesito intende ripristinare la responsabilità solidale in capo alla committenza nel caso di non solvibilità di un appaltatore che abbia alle proprie dipendenze una persona coinvolta da un grave infortunio o da una grave malattia professionale.
L’abrogazione in questo caso ha un duplice obiettivo: da un lato garantire sempre al lavoratore infortunato il riconoscimento del danno differenziale, quando sia riscontrato dal giudice; dall’altro indurre le committenti ad operare un’attenta selezione delle imprese coinvolte nelle opere o servizi conferite in appalto, limitando sia la scelta del massimo ribasso, sia il ricorso al subappalto e aumentando la qualità dell’intera filiera.
Cociancich: Il tema è estremamente complesso. In linea generale la responsabilità e dunque il rischio dovrebbe essere imputato a chi è nella migliore posizione per controllare il rischio stesso. Nel caso di grandi committenti che abbiano la forza economica di imporre agli appaltatori misure di sicurezza per i lavoratori è giusto che anche i committenti vengano tenuti solidalmente responsabili.
In molti casi però il committente non ha né le conoscenze, né la forza economica o organizzativa per imporre i controlli e le misure che devono essere approntate. Inoltre, c’è tutto il tema dei subappalti, spesso relativi a lavorazioni specialistiche per le quali neppure l’appaltatore è in grado di valutare pienamente i rischi e imporre le misure precauzionali da adottare. Il rischio, dunque, è quello di addossare delle responsabilità (e dunque condanne e risarcimenti) a soggetti che non erano in alcun modo in grado di prevenire l’infortunio.
La conseguenza potrebbe essere proprio la decisione degli appaltatori di non assumere incarichi per una determinata categoria di lavori comportanti opere in subappalto specialistiche, lasciandoli soltanto alle aziende più grandi e strutturate, o che i committenti stessi rinuncino a effettuare lavori necessari con conseguente degrado del patrimonio che doveva essere rinnovato o costruito. In generale, sarà possibile superare questo problema con il ricorso alla stipulazione di polizze assicurative (per la copertura dei danni economici ma non per la responsabilità penale).
Ciò detto, l’emergenza per gli incidenti sul lavoro mi spinge a guardare comunque con favore a questa misura e quindi voterò sì nella speranza che poi il legislatore intervenga per meglio delimitare la disciplina in questa materia (che mal si presta a essere decisa da un referendum).
A Valentina Cappelletti: nonostante l’importanza quotidiana dei temi affrontati nei quattro quesiti, alcuni punti specifici toccati possono apparire piuttosto tecnici e il “ritaglio” dovuto al carattere abrogativo dei referendum non giova in chiarezza: rivendicate il referendum come strumento più adatto in questa situazione?
La natura tecnica dei quesiti è dovuta alla natura abrogativa dello strumento, ma è anche influenzata dalla tecnica giuridica che il legislatore segue nello scrivere le norme e infine connessa alla stratificazione delle fonti legislative che regolano i rapporti di lavoro, su cui si sono scaricate numerosissime riforme dalla seconda metà degli anni Novanta del Novecento, fino ai giorni nostri. Questa caratteristica rischia di depotenziare lo strumento e può mettere in difficoltà gli elettori.
Tuttavia, il nocciolo delle questioni è piuttosto chiaro e ha sempre a che fare con la possibilità di cambiare norme che hanno reso più deboli i lavoratori nella relazione con l’impresa. Ciò non toglie che il ricorso ai referendum sia per la CGIL solo una parte della strategia per il rafforzamento dei diritti e il contrasto alle diseguaglianze: la costruzione della rappresentanza nei luoghi di lavoro, la tutela individuale, la contrattazione collettiva, il confronto e la negoziazione istituzionale, il coordinamento sindacale in Europa e negli organismi internazionali sono il cuore della nostra attività quotidiana, a disposizione di un progetto per migliorare le condizioni di vita e di lavoro di tutte e tutti.
A Roberto Cociancich: Negli ultimi mesi, Matteo Renzi si è adoperato per l’unificazione di un cosiddetto “campo largo” o “centrosinistra” che andasse dal centro al Movimento 5 Stelle, passando per il PD. Eppure, mentre il leader di Italia Viva si è schierato contro i quesiti sul lavoro, questi sono stati sostenuti sia da Conte che da Schlein: è la rottura del “campo largo” o si tratta di una distinzione ininfluente?
Matteo Renzi si è schierato per il no al primo quesito lasciando libertà di voto per gli altri. Questo è coerente con il fatto che il Jobs Act è stata una misura voluta e votata dal suo governo, sostenuto da moltissimi parlamentari oggi ancora del PD che sono quindi chiamati dall’attuale segretaria Schlein a rimangiarsi ciò che avevano sostenuto a suo tempo.
L’imbarazzo è dunque tutto nel PD ed è a loro che si deve chiedere se il campo largo è solo uno slogan privo di contenuti dentro al quale ciascuno fa quello che gli pare (si vedano anche le differenze su guerra Russia/Ucraina e Gaza) o se ha una piattaforma comune. È però compito del partito più grande (il PD) trovare la sintesi per aggregare attorno a sé le formazioni minori, tra cui i 5 stelle e Italia Viva.
Articolo di Michele Cacciapuoti ed Edoardo Ansarin